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AKT II autoprod. 2016 ITA

C’è qualcosa che non quadra nel titolo di questo che è il terzo album degli Akt… perché si intitola “II” e non “III”? Il mistero viene svelato dal gruppo che fa capire che “II” è appunto il numero 3 scritto in binario… e proprio il binario, ma stavolta si tratta di quello del treno (che è inoltre simbolicamente riprodotto proprio dalle due barrette del titolo), è il tema ricorrente dell’album, a completare questo piccolo giochetto che questa misteriosa band bolognese ci propone. Dico misteriosa, ma solo perché pare trattarsi di un progetto solo da studio; non si hanno notizie di loro esibizioni live, né di particolari interazioni sociali dei componenti che, dal canto loro, hanno comunque nomi e cognomi ben specificati; la band, di tanto in tanto, esce dunque con un nuovo album, o un EP, senza strombazzamenti di sorta, disponibile sì in CD ma anche liberamente scaricabile sul loro sito.
Questo nuovo album vede la formazione del gruppo rimpolparsi con l’innesto tre musicisti che vanno ad aggiungersi al trio che aveva firmato i precedenti lavori. Questa volta il gruppo estrinseca il proprio eclettismo sfornando un album che, pur ancora strettamente connesso con le influenze crimsoniane già note dai precedenti lavori, coniuga atmosfere post rock, elettronica e una psichedelia soft all’interno di 8 brani dalle atmosfere malinconiche, idealmente e visivamente (vedi la cover) ambientati ai margini di un binario ferroviario solitario, in una stazione idealmente deserta, con pochi momenti in cui la musica sale di tono o va sopra le righe. Tra questi momenti, sicuramente è da segnalare il bel finale strumentale dell’ultimo brano (“Passeggero”), tutto in crescendo, fino al finale ove i rumori di un treno che parte si fonde in una coda tastieristica che rimanda alla prima traccia.
I testi delle canzoni sono piuttosto ermetici, anche se tutti quanti hanno come tema comune quello dei treni. “Coincidenze” è caratterizzato da una ricorrente melodia di tastiere il cui suono delicato (perché mi viene in mente la Fata Confetto dello Schiaccianoci?) contrasta con l’inquietudine emanata dal cantato, dalla chitarra elettrica e dal basso. “Stazione”, che si lega tramite rumori effettistici con la traccia precedente (una costante che ritroveremo), stenta a decollare, col cantato che si muove su tappeti delicati, fino all’entrata in gioco della band al completo, con vari break, inclusa una breve sezione di archi, che ci conducono a un bel finale strumentale.
Il cantato, per la maggior parte assicurato da Marco Brucale, non mi fa impazzire, sinceramente: ben poco melodico e dalle tonalità monocordi, ha sicuramente una sua brava funzione nel contribuire alle atmosfere create dalla musica, nonché un feeling che genera complicità nell’ascoltatore, ma non rappresenta certo la miglior freccia nell’arco del gruppo. La terza traccia (“II”) ce lo risparmia per quasi 9 minuti, visto che il breve testo della canzone viene declamato nell’arco di pochi secondi, lasciando spazio a progressioni strumentali quasi da colonna sonora che comunque non rendono questo brano particolarmente memorabile.
“Frenetica dialettica dell’etica” dura per contro meno di 3 minuti e risulta piuttosto gradevole; si tratta di una canzone abbastanza ordinaria (in senso buono), con belle melodie, anche se sempre con sonorità un po’ spigolose, e tastiere intriganti, coadiuvate stavolta da un cantato più delicato del solito. “Convoglio”, dopo un avvio in cui il cantato è sostenuto solo da melodie di tastiere ed atmosfere morbide, vira improvvisamente verso una parte centrale caratterizzata da effetti elettronici e una chitarra nervosa, per poi tornare sulle atmosfere iniziali.
“Scambio” è un’altra breve traccia che gode di una bella strumentazione, con archi, congas e deliziosi arpeggi; molto gradevole, anche se dà l’idea di essere poco più di un intermezzo, prima della successiva “Binario morto” in cui il cantato, a tratti poco più che sussurrato, non dà il meglio di sé. A livello strumentale invece il brano offre spunti interessanti, con parti in cui la musica sale decisamente di tono, con tastiere impazzite, tromba e violino che si danno il cambio. Il finale dell’album, come detto, è affidato a “Passeggero”, un bel brano di oltre 12 minuti la cui prima parte, che inizia con un arpeggio di chitarra, ha ancora connotati cinematici, fino all’esplosione strumentale della seconda parte, introdotta da effetti elettronici.
L’album, come peraltro i precedenti della band, non è certo agevolissimo all’ascolto e necessita di ripetute fruizioni per poter apprezzarlo appieno, prima di tutto per poter cogliere tutte le mescolanze ed alternanze strumentali che vengono inserite all’interno dei brani. Penso comunque di poter affermare che il gruppo meriti di essere seguito con interesse, dato che la ricerca di soluzioni banali e di facile percorribilità non rientra proprio ne suoi geni. Questo tuttavia non inficia la piena godibilità di quanto alla fine viene proposto che può venire apprezzato senza grandi addestramenti all’ascolto.



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Alberto Nucci

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