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ANTILABE’ Domus venetkens Lizard Records 2018 ITA

Montebelluna, 27 Settembre 1559. A seguito di alcuni lavori di edificazione viene scoperto per caso, in località Posmon, un vaso potorio bronzeo finemente decorato, vecchio di 2000 anni. Un esperto a Venezia ne analizza i dettagli e momenti di vita quotidiana dell’antico popolo dei veneti scorrono nei suoi occhi: una parata di carri e cavalieri, una lotta di pugilato, il trofeo per il vincitore, libagioni con figure maschili e femminili, una donna che fila, una scena di caccia al cervo e una di aratura. Ma il consiglio è quello di frantumare in pezzi la sottile e preziosa lamina e di sotterrarla nuovamente nel luogo del ritrovamento. Secoli dopo, in una splendida e decadente Venezia Settecentesca, riaffiorano le tracce dell’antico vaso e inizia per i protagonisti del nostro racconto un incredibile viaggio nel tempo alla ricerca delle radici perdute dei veneti che, secondo la tradizione omerica, affonderebbero in Asia Minore. Questo è l’antefatto del romanzo che Adolfo Silvestri sta completando nel momento in cui scrivo ed è il concept su cui si muove il terzo disco dei suoi Antilabè (l’esordio “Dedalo” è del 1997).
Elementi storici ed etnografici si fondono a trovate fantastiche e la musica contenuta nel nuovo album è essa stessa viaggio, studio di tradizioni musicali e ricerca delle proprie origini alla scoperta della casa antica dei veneti o “Domus venetkens”, per riprendere il titolo per metà in latino e per metà in veneto antico. Avevamo già sperimentato il grande eclettismo degli Antilabè e la loro indole multiculturale grazie a “Diacronie” (2010), un album che si faceva notare proprio per l’uso di forme musicali ricche di contaminazioni etniche e di testi particolarissimi facenti capo a patrimoni linguistici distanti fra loro. Ma il nuovo “Domus venetkens” si spinge secondo me oltre ed il linguaggio musicale degli Antilabè, che col tempo si è magnificamente affinato, viene riversato in un vero e proprio progetto culturale di ampio respiro.
Un effetto benefico lo dobbiamo certamente al ritorno di Graziano Pizzati, membro fondatore del gruppo e autore di tutta la musica contenuta in questo CD. Proprio il suo abbandono aveva dato ai membri superstiti l’input per cambiare le carte in tavola e ricostruirsi una propria identità musicale, sostituendo il suo pianoforte con nuovi strumenti come marimba e vibrafono (suonati dal batterista Luca Crepet) e inserendo nell’organico un secondo percussionista (Luca Tozzato). Vecchi e nuovi stili convergono ora in un nuovo percorso disegnato da una formazione allargata dai notevoli potenziali che si avvale anche dell’aiuto di alcuni ospiti e cioè di Elvira Cadorin alla voce, Piergiorgio Caverzan al clarinetto basso e soprano e Sara Masiero all’arpa celtica. I testi appartengono come al solito ad Adolfo Silvestri (basso acustico, fretless, bouzouki) e rappresentano un altro grande elemento di vanto. La loro stesura, in idiomi diversi, è supportata sempre da un attento lavoro linguistico e di cesello, alla ricerca di parole che siano esse stesse musicali per i loro suoni e per la loro metrica e che entrino a pieno titolo nella struttura dei brani, indipendentemente dal loro significato. Il loro ritmo e la loro espressività vengono amplificati grazie alla voce di Carla Sossai, limpida e potente, che riesce ad interpretarli al meglio con uno stile unico che a volte mi ricorda, e lo avevo già detto in occasione del precedente album, quello di Sonia Nedelec dei francesi Minimum Vital.
Si tratta sicuramente di un progetto ambizioso, come avrete intuito dalle mie parole, ma coerente e fluido nello stile, composto da dieci tracce variopinte ma ben concatenate fra loro con grande consequenzialità a dare vita a una visione musicale di ampio respiro, scandita da diversi scenari che sono i capitoli di un viaggio che ci porta in luoghi lontani, in epoche diverse a toccare radici culturali a prima vista lontane fra loro. Questa ricerca sonora senza confini, l’universalità della musica, la sovrapposizione di stili diversi, la fantasia nell’uso di poliritmie e di temi musicali suggestivi, fanno la ricchezza di questo album. La base è sempre un misurato soft jazz illuminato da tantissime colorazioni etniche e da aperture sinfoniche che, grazie al ritrovato pianoforte di Pizzati, diventano più tangibili che in passato.
Quando parte “Enetioi”, l’elegante intro dominata dal pianoforte, immaginatevi come catapultati in una nuova dimensione e pensate allo scenario che ho descritto all’inizio di questa recensione: la situla di Posmon è stata ritrovata per la prima volta ed il viaggio ha inizio. Con “L’è riva’ carnoval” siamo nella Venezia del Settecento e viene sviluppato il tema del carnevale. Il testo è liberamente ispirato alle canzonette veneziane dell’epoca inventate per la maggior parte dai gondolieri e la musica, che si muove su ritmi frastagliati e serpeggianti, si accende di mille sfumature. Vi scorgiamo vaghe inflessioni sudamericane ma anche riferimenti alla musica antica, aperture classicheggianti e un’attitudine di chiara matrice progressiva. Questo in particolare è uno dei brani che meglio mi ricorda i già citati Minimum Vital per quel che riguarda la voce ma anche per certe soluzioni musicali molto vicine a “Sarabandes”. L’altro brano “molto Minimum Vital” è sicuramente “Glavize visokoska”, pezzo ritmato dalle fragranze mediorientali che ci porta in Bosnia, con un testo in lingua illirico ragusea. Le melodie sono disegnate dal clarinetto basso e sostenute da un vibrante bouzouki.
Oscuro e jazzy, “In balia dei flutti” è uno dei tanti intermezzi che legano i capitoli principali dell’opera. Grazie a questi brani la musica diviene un flusso continuo che ci trasporta dolcemente di scenario in scenario senza subire gli sbalzi di un disco in continua metamorfosi. Il piano è cupo e la chitarra elettrica di Marino Vettoretti intesse fragranze fusion dai riflessi etnici forniti dal vibrafono scintillante. Il ritorno nella penisola italica avviene sui ritmi danzanti di “Orria Festa” che sanno di pizzica e tarantella. Questo brano dagli arrangiamenti sofisticati ,con suggestioni che ci portano in parte alla PFM e gentili virate verso il jazz rock, è testimone di simbiosi stilistiche incredibili. L’idioma questa volta è il griko dell’antico Salento, ancora oggi parlato in alcune comunità.
“Ionios kolpos”, per pianoforte e basso, ci porta lungo le rotte per la antica Grecia nel 480 a.c. all’epoca della battaglia delle Termopili. La lingua greca ha un impatto elegante, esaltato dalla voce di Elvira Cadorin che ha delle sembianze quasi liriche, ed è sostenuta dalla musica che pian piano prende corpo seguendo un ritmo che potrebbe essere quello del sirtaki. Il brano possiede una complessità da non sottovalutare e si basa su diversi cambi stilistici ed emotivi, combinando sonorità antiche e moderne in un quadro pittoresco e coerente. L’episodio conclusivo, “Gandra”, è infine qualcosa di elegiaco e speziato basato sulla rielaborazione di melodie turco persiane. Il taglio è moderno ed i testi, basati su antiche iscrizioni venetiche, offrono suggestioni uniche.
Siamo quindi giunti alla fine del viaggio e di un album ricchissimo di contenuti che il gruppo avrebbe potuto declinare in modo robusto ed esagerato per la quantità e la qualità del materiale di cui dispone ma che invece ha scelto di elaborare in modo leggero, come un volo che ci fa toccare velocemente paesaggi e sensazioni e in cui i tanti riferimenti sono incastonati in un arazzo gradevole per i sensi e per lo spirito. Ma questo è un viaggio che ognuno di voi dovrà intraprendere personalmente e vi consiglio di non farvi sfuggire l’occasione di assaporare quello che per me si è rivelato come uno degli album più significativi dell’anno.



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Jessica Attene

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