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ATME State of necessity autoprod. 2017 POL

Chitarre pesanti, suoni roboanti e pronti ad esplodere… quando a un certo punto pare che attacchi a cantare Ian Astbury in persona! Questo è esattamente quanto accade con l’iniziale “Worth of Pity”. Le proposte che ultimamente arrivavano dalla Polonia – diciamolo francamente – erano un po’ tutte uguali: prog-metal la cui propensione era sempre sul plumbeo-malinconico, mai eccessivamente veloce, spesso e volentieri sconfinante col post-rock/post-metal, quindi ancora più depresso ed etereo, nonostante le dure sonorità. Roba decisamente pesante. A tal riguardo, non si può certo dire che la band di Wrocław suoni leggera, tutt’altro, ma quanto meno rappresenta qualcosa di differente. È come se proprio i The Cult, di cui Astbury è il front-man e leader indiscusso, abbiano per l’ennesima volta mutato pelle e da quel “Ceremony” del 1991 avessero preso strade differenti rispetto a quanto fatto in seguito (anche se ogni tanto vi sono strani incroci di vie, in questa strana sliding door) e nel tentativo di saltare direttamente a “Choice of weapon” (2012) si siano ritrovati tra le nubi più nere del mistero umano. Si tratta di un rock che spesso si contamina col grunge, ma che subendo rallentamenti e accelerate improvvise, ponendo poi alcuni strumenti in primo piano – soprattutto il basso di Adrian Nejman – tende effettivamente a “progressivizzare” il proprio sound. Detto dello stile del cantante Łukasz “Luke” Pawełoszek, il chitarrista Piotr Guliński fa un po’ il “Billy Duffy della situazione”, producendosi in assoli che magari non sono poi molto complessi tecnicamente né particolarmente lunghi, ma che puntano all’impatto emotivo. L’album – preceduto dell’EP “Forgiving myself” del 2015 – è peraltro qualcosa di abbastanza complesso; ben prodotto da Mark Dziedzic, affronta il tema esistenziale giocando tra osservazioni di fatti quotidiani abbinati alle nozioni sui chakra. Non a caso, i dodici pezzi sono suddivisi in sette gruppi, i cui brani principali e dal minutaggio più esteso sono a loro volta sette (gli altri sono molto brevi, semplici corollari). Ogni gruppo è quindi incentrato sul centro energetico corrispondente, tutto illustrato in maniera veramente particolare e per nulla convenzionale dai disegni nel booklet ad opera di Kszysztof Rusinek, a cui occorre aggiungere la nebbiosa copertina del pittore Maksymilian Novák-Zemplińskiand.
Seguendo la disposizione dei chakra, nel retro copertina i brani sono elencati dal basso verso l’alto e vale la pena soffermarsi proprio sugli ultimi pezzi. “(Un)Cut Thoughts”, come da titolo, corrisponde al sesto punto di energia, quello del “Terzo Occhio”, quella parte spirituale che sviluppa la fiducia in se stessi. Si tratta di una composizione in cui la chitarra e il basso sembrano serpeggiare, per poi registrare alcune impennate come del resto avviene in altri frangenti. E poi i quasi dieci minuti di “Hotel of the Transifguration”, in linea con il “chakra della corona”, quello che sta sopra il cranio, che presiede il pensare strategico e l’autorealizzazione finale. Come in un altro pezzo molto lungo intitolato “Interrupted Call”, Pawełoszek si diverte quasi a urlare certe frasi, a prolungarle molto a lungo, tra momenti più aggressivi e altri di cupa meditazione. Da citare i cinque minuti tondi di “Trickster”, davvero gagliardi – non a caso si tratta del terzo chakra, quello del plesso solare, cioè l’essenza attiva che fa agire energicamente –, in cui le corde di basso aprono la strada a qualcosa di simile ai Savatage più pesanti che sprofondano in un pozzo buio e profondo, con un assolo di chitarra che si lascia ben ascoltare, chiusi in conclusione da ritmiche particolari. E poi ci sarebbe “Pleasure Box”, dal titolo collegato al secondo punto di energia, quello del basso ventre, la gioia di vivere ma anche di esprimere la propria sessualità ai massimi livelli. Composizione controllata, sinuosa, con il supporto strategico del sax di Łukasz Kotecki nello stile di Theo Travis che compariva col David Bowie prossimo alla fine (con le dovute proporzioni, per carità!) e le doppie voci femminili che conferiscono aria di seduzione invero non così pura…
Beh, alla fine questo non era certo un album così scontato come si poteva inizialmente pensare. Anche i simboli sul dischetto, ben disposti e disegnati, stanno ad indicare un prodotto sicuramente “colto”. Non è certo indirizzato a chi usufruisce di prog nel senso stretto del termine, ma di sicuro sviluppa un discorso molto interessante su sonorità che ormai sembrano aver detto quasi tutto. Quasi, appunto. Una buona partenza, che spinge a pensare e a prestare ulteriori ascolti.



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Michele Merenda

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