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ARTNAT The mirror effect autoprod. 2021 POR

In origine erano i Tantra, prog band portoghese fondata da Manuel Cardoso nel 1976 ed autrice di tre album, poi sciolta durante il 1981. Nel 1998 viene riformata con formazione rinnovata e nel 2002 esce sul mercato discografico “Terra”, seguito tre anni dopo da “Delirium”. Nel mezzo, il CD dal vivo intitolato “Live ritual” (2003). Dopo sedici anni, il chitarrista Manuel Cardoso torna in compagnia del tastierista Gui da Luz, presente sull’ultimo lavoro in studio della succitata band, e ribattezza la propria creatura col nome di Artnat, cioè il vecchio monicker… allo specchio. Un “effetto ottico” riportato in copertina fin dal titolo, intitolando quest’album – per l’appunto – “The mirror effect”, che sul retro viene scritto specularmente e, per lo stesso principio, ecco che Artnat diviene nuovamente Tantra.
Sempre col medesimo personaggio in primo piano, la cui testa ricorda decisamente qualche altra parte anatomica (parlando di tantra…!), molte delle composizioni qui presenti erano inizialmente delle jam, a cui vanno aggiunti i brani il cui autore risulta solo Cardoso. Tra queste ultime vi è l’iniziale “Riding the edge of Darkness”, connotata da un deciso approccio Crimsoniano del periodo anni ‘80, qui abbondantemente “lisergizzato”. Oltre alla voce di Sara Freitas, che si mescola al magma sonoro, entra in gioco una voce maschile (presumibilmente quella di Cardoso), cattiva e diabolica, seguita poi da vari interventi delle sei corde e dei sintetizzatori. Il bassista Paulo Bretão crea una spina dorsale ritmica molto contorta, a cui si deve adeguare il drumming di João Samora. Aggiungendo anche la presenza di un altro tastierista, André Hencleeday, ecco che il quadro caotico e martellante diventa completo e forse anche leggermente più comprensibile. “Eternal dance of love”, che nasce come una jam, risulta invece nettamente più misurata e atmosferica. Sara canta quasi come Kate Bush, anche se alcuni acuti sembrano un po’ troppo sforzati, supportata poi dai vari inserimenti tastieristici, oltre che da un buon assolo di chitarra. Prende quindi il via la lunga “Return to OM”, quasi un quarto d’ora diviso in tre movimenti: “Nirvana” sembra cominciare in maniera simile al pezzo appena terminato, inframezzato però da parti strumentali aggressive e complesse tipo quelle dei primi Djam Karet. L’andamento non è mai lineare, perso tra giri di basso in evidenza, note di pianoforte e variazioni rock che potrebbero ricordare i Rush. Il secondo movimento, che dà nome alla traccia, scorre più tranquillo, dotato anche di un afflato da jazz notturno, sempre però reso in chiave psichedelica (costanti gli effetti alla voce), continuando la discesa nel buio della notte col terzo “The Warrior”; qui si ricordano certe soluzioni adottate da alcune prog metal band a inizio anni ’90 per quelle che dovevano essere delle ballad e che, in realtà, erano più che altro dei momenti maggiormente quieti. La tensione infatti, non potendo più essere contenuta, viene fuori sotto forma di interventi chitarristici in questa atmosfera sempre forzatamente sognante.
Come da titolo, la strumentale “From Chaos to Beauty” suona decisamente pirotecnica, quasi nello stile dei Mastermind, con vere e proprie colate laviche tecnologiche rese sotto forma di cavalcate strumentali, che poi vanno pian piano raffreddandosi. Suona più cadenzata la seguente “A view from above”, riportando la voce femminile a fondersi nel calderone musicale. Ci sono degli attimi che fanno storcere il naso, ma nel complesso si tratta anche in questo caso di una composizione complessa che merita attento ascolto, soprattutto per i passaggi di Cardoso nella seconda parte. A pensarci bene, il punto di base a cui fare riferimento in molti brani potrebbe essere quello dei Sieges Even più quieti, decisamente spogliati dalle caratteristiche metal e maggiormente progressivi. Nemmeno il tempo di fare questa riflessione che “Cosmic Machinery” si avvicina invece agli Yes, privati però della voce e compiendo quindi gli straordinari coi propri strumenti. Atmosfera sempre da fantascienza, dove si apprezza il montare della chitarra in territori sonori acuti e simil-mediorientali, in cui la psichedelia riesce spesso ad attecchire meglio. Ci si rende così conto che una vera battaglia ha preso il posto dei rimandi al vecchio prog sinfonico. Rimandi che tornano all’inizio della title track, immediatamente trasmutati in qualcosa che diventa man mano inquietante, anche perché nelle sezioni vocali sembra aleggiare uno strano candore che stride con le partiture soliste. La strada verso la fine è ancora lunga e perciò bisogna passare per “Celebration”, aperta da soluzioni tribali e poi da un miscuglio di voci e chitarre intricate, elementi che si vanno entrambi man mano dipanando, almeno in apparenza, per poi intricarsi nuovamente e ancora rilassarsi, richiamando anche in questo caso gli Yes più complessi. A proposito di complessità, sicuramente è da seguire l’andamento di “The dramatic beauty of Life”, sghemba e allo stesso tempo solenne, per lo più strumentale con l’aggiunta di alcuni vocalizzi. Su questa medesima vena sembra continuare “The complex Art of Creation”, salvo poi diventare più grave e gotica col subentrare delle parti cantate, comunque dominata da partiture chitarristiche di ispirazione jazz-rock/fusion.
Dopo il breve “Finale”, ci sono le tre bonus: “Jam Chaos”, “Jam Machinery” e “Jam Celebration”, forse le forme embrionali dei vari pezzi precedenti indicati con i relativi titoli. Comunque, tre episodi dall’alto livello esecutivo nonostante la loro estemporaneità, che ricordano l’approccio adottato da certe bande sudamericane. Si conclude quindi un lavoro che si è dimostrato forse troppo lungo e abbondante ma che comunque si attesta su livelli più che buoni e che vede la (semi)nuova creatura di Manuel Cardozo in ottima forma.



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Michele Merenda

Collegamenti ad altre recensioni

TANTRA Misterios e maravilhas 1978 
TANTRA Holocausto 1979 (Musea 2002) 
TANTRA Terra 2003 
TANTRA Live ritual 2003 
TANTRA Delirium 2005 

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