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BROTHER APE Shangri-la Progress Records 2006 SVE

Perfettamente in linea con la nuova tendenza delle band scandinave, sempre più propense ad un’inaspettata solarità, giunge puntuale – ad un anno dall’album di esordio - la seconda prova discografica della band di Stoccolma, divenuta nel frattempo un trio a causa della defezione del cantante e polistrumentista Peter Dahlström.
Con le parti vocali ora appannaggio del leader e chitarrista Stefan Damicolas e la totale responsabilità per quanto riguarda basso e tastiere nelle mani di Gunnar Maxén, l’assenza del quarto componente non si fa affatto notare: al contrario, possiamo notare una maggiore accuratezza negli arrangiamenti (occorre però ricordare che il primo album “On the Other Side” era di fatto un demo trasferito su CD…) ed un netto miglioramento nello sviluppo delle composizioni, sempre all’insegna di un prog digeribile e relativamente disimpegnato di vaga matrice Yes, ma stavolta niente affatto scontato.
Soprattutto nella prima metà dell’album è la chitarra a farla a padrone: i frizzanti e gioiosi fraseggi di Damicolas debbono molto allo stile di Steve Howe (basti ascoltare l’iniziale “New Shangri-La” o la frenetica “Inside you” per accorgersene…) e questo, unito al cantato spesso a più voci ed alla modernità dei suoni di synth, mi spinge a paragonare i nostri agli statunitensi Relayer (come già ebbi a dire in passato), anch’essi riconducibili all’ipotetica categoria “Yes-lite”.
Gli elementi fusion presenti nell’esordio sono qui parecchio ridimensionati (e confinati nella languida “Monasteries of Meteora” certamente ispirata da un certo Metheny e nell’intro di “Meatball tour”, in cui affiora anche qualche similitudine con gli ultimi Echolyn) in favore di un rock più sinfonico, sia pure con svolgimenti lineari e privi di colpi di scena, ma nondimeno godibile se non si è in cerca di apocalissi soniche.
Non mancano comunque tentativi in direzioni leggermente più sperimentali, come la lunga coda strumentale di “Beams” ed il suo ipnotico ed ostinato riff di chitarra, mentre il fantasma degli UK di Wetton e Jobson affiora nella nostalgica ballad “I’ll be going” affidata alle soffuse tastiere di Maxén.
Le numerose parentesi acustiche, con tanto di sinuoso basso fretless (“Umbrellas”, “A reason to wake”) portano a volte il disco in una direzione più intimistica del precedente, e questo è vero soprattutto nella seconda metà dell’album, in cui i ritmi si fanno più rarefatti, per sfociare infine nell’atmosfera liquida e sospesa della melodica “Timeless for the time being”.
Per concludere, la band ha deciso - consciamente o meno – di proseguire sui binari già percorsi in passato, migliorando parecchio in fase di produzione ed arricchendo i brani di sapori più decisi ma comunque sempre ben noti e assimilati dalla nostra sensibilità di progsters; quello che passerebbe come un ottimo album in tempi di magra posso oggi solo definirlo un’apprezzabile aggiunta alla vostra collezione, senza parlare di acquisto indispensabile.

 

Mauro Ranchicchio

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