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BEAT CIRCUS Dreamland Cuneiform Records 2008 USA

Avevo qualche dubbio a recensire questo lavoro sulle pagine di Arlequins. Non ci troviamo di fronte ad un disco progressive sinfonico, né tanto meno ad un disco di avanguardia o canterburiano. Nonostante questo, credo che difficilmente una persona riesca a non rimanere affascinata da un disco del genere.
Brian Carpenter riesce nelle 16 tracce di questo lavoro ad immergerci nell’atmosfera magica e surreale di un parco di divertimenti e precisamente quello di Coney Island: uno dei più famosi parco-giochi della storia inaugurato nel 1904 e andato distrutto in un incendio nel 1911.
"Dreamland" è, infatti, un concept che parla di Johnny, un cercatore d’oro alcolizzato che perde il braccio durante un incidente. Per ottenere il braccio indietro, Johnny fa un patto col diavolo di uccidere la moglie e poi scappa a New York per lavorare nel luna park (anche il tema di Faust è diventato inflazionato in campo musicale, bisogna dirlo).
"Dreamland" non ha bisogno delle immagini per farci capire le varie scene di questo concept. I quadri sonori riescono a farci entrare nel pazzo mondo di quel posto senza l’apporto delle macchine da presa. Musiche balcaniche, valzer, bluegrass, acustica d’avanguardia, musica contemporanea vengono miscelate tra le varie tracce rendendo il puzzle sonoro omogeneo e coerente con la storia che il disco vuole raccontare.
E’ difficile trovare un lavoro dove gli Sleepytime Gorilla Museum vanno a braccetto con Tom Waits e con la Penguin Cafe Orchestra e, nello stesso tempo, è difficile scrivere un disco del genere per 12 strumenti che sembrano sulla carta fare a cazzotti uno con l’altro (banjo, violoncelli, tromboni, bassotuba, batteria etc) ma Carpenter ci riesce alla grande. Il risultato che ne viene fuori è in ogni modo di una leggerezza e fruibilità non comune ad altre opere che vogliono essere musicalmente trasversali, le trame sonore, anche se costruite benissimo e con scelte sia melodiche sia strumentali poco scontate, non risultano complicate nemmeno all’ascoltatore meno avvezzo a certe sonorità.
Potrei continuare per ore ma l’unico aggettivo che secondo me rende l’idea per far capire questo lavoro è: bello. Anzi, bello come pochi.

 

Antonio Piacentini

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