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BEYOND THE LABYRINTH Castles in the sand Incommunicado 2009 BEL

La presentazione di questo secondo lavoro dei belgi Beyond the Labyrinth è piuttosto altisonante, alludendo a ben 11 anni di composizione e 10 mesi di preparazione per dar vita a questo “classico del futuro”. Sbandieramenti a parte, la storia della band ci parla di un’esistenza travagliata, di formazioni assemblate nel corso degli anni per il lavoro in studio e di altre nate per portare la musica sul palco, sempre incentrate attorno alla figura del fondatore e compositore Geert Fieuw, chitarrista e secondo tastierista. Completano il nucleo il tastierista di ruolo Danny Focke e il vocalist Jo De Boeck, unici superstiti del quintetto che nel 2005 diede alla luce l’esordio “Signs”, completato da una sezione ritmica nuova di zecca.
Poiché non sono solito chiedere all’oste se il vino sia buono, mi appresto all’ascolto di questo disco dalla durata inferiore all’ora (spesso è un buon segno…) senza preconcetti e dimentico degli autoproclami di cui sopra. Purtroppo bastano i primi due o tre brani (escludendo l’introduzione) per rendersi conto di aver a che fare con una proposta che con la fantasia compositiva – prerogativa imprescindibile del progressive, che si fregi o meno del suffisso “metal” – ha ben poco a che spartire: si tratta di brani dall’andamento piuttosto monotono, costruiti su riff che non possono nascondere la pochezza di fondo. Passando infatti da “Solitary dancer” a “Pure sabotage” si stenta a capacitarsi dell’avvicendamento, nonostante il piano aggiunga un po’ di varietà alla seconda; stesso discorso per la successiva “The enemy within”: l’incipit è atmosferico, ma ben preso la doppia cassa riporta il brano in territori metal, pur conservando un andamento relativamente moderato (ma uno sviluppo altrettanto monocorde). La voce di De Boeck appare forzatamente enfatica e ciò non aiuta la digestione della proposta (volendo anche sorvolare sulla pronuncia non certo neutra…). Nulla da aggiungere sui due brani successivi, infarciti come sono di luoghi comuni, giungiamo finalmente a quello che considero il vertice dell’opera: la title-track, introdotta dalle note di piano dell’ospite Kirill Pokrovsky: che sia la prima vera ballata dell’album? No, dopo un solo minuto ecco ripartire il treno dei BTL, almeno fino alla successiva stazione, ma ecco che un Mini-Moog ci fa sollevare le antenne… finalmente i cambi di tempo e l’alternanza di umori aggiungono un po’ di sale alla pietanza, che avrebbe certamente giovato di soluzioni simili anche altrove. La successiva “For eternity” può vantare un esordio quasi in stile new-prog, con tastiere vagamente reminiscenti dei Marillion o dei primi Pendragon, percussioni soft e chitarra classica… niente di speciale, ma la quotazione resta in salita.
Il resto del disco è invece…”business, as usual”: un controcanto femminile, e qualche intenzione vagamente floydiana (“Caught in the game”) poco aggiungono quando le idee paiono latitare pericolosamente. La chiusura di “No place for a dreamer” conduce finalmente l’ascoltatore pellegrino in un’oasi di calma: la voce di Jo risulta anche piacevole quando finalmente assume un timbro più naturale e qualcosa ci suggerisce che le potenzialità siano maggiori di quelle espresse nell’album, che risulta in definitiva un passo falso nonostante la lunghissima gestazione.

 

Mauro Ranchicchio

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