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IVA BITTOVÁ / VLADIMÍR VÁCLAVEK Bilé inferno Indies Scope Records 2009 CZE

Scopriamo subito le carte! “Bilé Inferno” (Inferno Bianco) è per il sottoscritto uno dei dischi più belli degli ultimi vent'anni.
È uno di quei dischi in cui tutto funziona. Raramente due musicisti, all’apparenza così diversi, si sono completati e alimentati raggiungendo un alchimia compositiva e interpretativa tale da rasentare la perfezione assoluta. Iva Bittová e Vladimír Václavek sono quanto di meglio ha prodotto l'underground praghese di fine comunismo, iniziando assieme la loro carriera nel gruppo dei Dunaj. Nel 1997 si sono rincontrati per la realizzazione di questo doppio album dando vita ad un memorabile duetto!
La Bittová ha irrotto nella scena della musica d'avanguardia sul finire degli anni ’90: nata da una famiglia di musicisti con origini gitane e slave, ha fatto poi proprie tutte le sue radice condensandole in un mix esplosivo. Ha intrapreso studi classici di violino, si è fatta conoscere al pubblico occidentale per la partecipazione al film di Fred Frith "Step Across The Border". Vladimír Václavek, autodidatta, è invece diventato famoso come leader e bassista dei Dunaj, passato poi alla chitarra e affermandosi come sofisticato cantautore.
Come già precedentemente accennato i due musicisti sono stilisticamente agli opposti: tanto sobrio e pacato Václavek quanto esuberante ed eclettica Bittová. Da un lato la voce profonda e rassicurante di lui, dall'altro la voce muscolare estesa che spesso tradisce un istinto teatrale di lei. Idem per i loro strumenti, la chitarra acustica morbida e spesso arpeggiata e, di contro, il violino o la viola, aspri e graffianti. Strumenti che non fanno altro che fondersi in un tutt’uno con le individualità e le voci dei due interpreti. Ed è proprio da questo forte e netto contrasto che nasce la magia dell’album: con insospettabile naturalezza le due personalità si avvolgono in perfetta armonia, in un sistema euristico dove la somma delle parti è inferiore all’insieme.
E’ indubbio che la Bittová, con la sua straripante personalità e abilità, prende la scena dell'album. E’ sicuramente la sua performance quella che maggiormente rimane impressa ma di certo non va sottovalutato l'apporto del suo compagno che controlla con pacatezza e raziocinio tutto l'enorme talento di Iva evitandole di andare sopra le righe e canalizzando tutte l'energie della cantante verso un folk rock con venature avanguardistiche. Vladimír riesce ad essere sempre calmo ed impassibile anche quando la sua compagna gli crea il pandemonio attorno. Ad accompagnare i due c’è una serie di grandi musicisti come Tom Cora (violoncello), Ida Kelarová (piano e voce), Jaromir Honzak (basso), František Kucera (tromba), per non tralasciare i cori femminili e di voci bianche. Tutti a donare colore ed a rendere unico l’album con i loro strumenti, rigorosamente acustici, e le loro voci.
È arrivato il momento di parlare più approfonditamente dell’album.
Graffi di viola seguiti da arpeggio dolce di chitarra, tutto come volevasi dimostrare. Inizia così “Vzpomínka” il pezzo più folk dell'album. Iva tira subito fuori i muscoli, gorgheggia, sale, scende con estrema naturalezza e la sua viola la segue con veemenza. Gli fa da contraltare Vladimír, la sua voce, certe volte quasi impercettibile, crea il tappeto sulla quale la sua compagna furoreggia. La traccia successiva “Uspávanka” inizia con gli accordi della chitarra che aprono lo scenario per Iva, elfo etereo che ci guida nelle fatate foreste boeme accompagnata da spiriti femminili che le fanno da coro. Segue quindi un ritmo incalzante scandito da tamburelli, una melodia ipnotica che nasce e muore più volte e, sul finale, il coro femminile si tramuta in un coro di bimbi. Rimango avvolto da un manto di magia anche in “Sirka v louži”. Alla chitarra questa volta si affianca la kalimba suonata sempre dalla Bittová. La canzone inizia come una ballata medioevale per evolvere verso l’avanguardia trascinata dall’istrionismo della musicista praghese e dalle sue acrobazie vocali. Acrobazie vocali di cui fa grande sfoggio anche nella successiva “Sto Let”, mettendo in mostra tutto il suo range, inizialmente con delicatezza, quasi sussurrando, per poi esplodere in una baraonda finale che ci porta alla mente una danza di streghe invocanti una divinità pagana attorno ad un falò. Sembra giungere un momento di tranquillità con “Kdoule”: la voce di Iva si fa quanto mai delicata, trattenuta. Si viene a creare un’atmosfera minimalista, uno strano mix tra litanie arabe e bossanova, ma improvvisamente entra in scena un violoncello un po’ folle che con i suoi trilli trascina il brano verso lidi RIO. Ida Kelarová si prende la scena con uno squisito intermezzo di pianoforte e voce, parte iniziale di “Zelený víneček”, canzone popolare slovacca. Prosegue poi cantando ad unisono con la Bittová una melodia ipnotica, con l’accompagnamento di un coro femminile. Con l’entrata in scena del basso felpato e potente di Honzak si vira decisamente verso l’avanguardia, con la voce del bassista che si unisce ai vocalizzi femminili e al piano. Il brano si conclude riprendendo la melodia iniziale, che tronca improvvisamente… e cosi finisce anche il primo cd.
Un attimo di pausa… si ricomincia… “Moucha” … ed ecco che un mandolino ossessivo avanza spietato, per poi venir affiancato dalla viola martoriata di Iva che urla e canta come un’ossessa, ricordandoci Diamanda Galas. Siamo ormai precipitati nell’Inferno Bianco. Solo la chitarra rassicurante di Vladimír riesce a placare i demoni che posseggono la sua compagna, la quale continua a vocalizzare in maniera più rassicurante. La normalità si raggiunge solo nel finale, quando la canzone si tramuta quasi in una ballata americana, dove però la Bittová non sopprime a pieno la sua vena teatrale.
Violino e voce si accompagnano delicatamente, così ha inizio “Moře”, ma anche in questo caso la calma durerà poco. L'ingresso del violoncello di Tom Cora carica il pezzo di pathos drammatico, fino a rinchiudersi in una parte centrale di effetti sonori. Da qui rinasce il violino della Bittová, prima dolcemente, poi piano piano si scatena fino all’inesorabile ingresso del violoncello che culmina in un finale agonizzante.
Vladimír Václavek sale in cattedra con “Starý mlýn”. Il musicista ceco sopraggiunge come uno squarcio di ciel sereno dopo la bufera e con sobrietà, e con la sua voce baritonale, emoziona in una ballata senza eccessi, chiudendo così la parte più estrema dell’album. Ipnotica e velenosa torna la Bittová con “Je tma”. Cantando quasi sussurrando sopra ritmi indiani, ammalia come un’incantatrice di cobra. Chitarra e viola duettano meravigliosamente, mostrando entrambi i musicisti tutti il loro incredibile talento, si sovrappongono dolcemente le voci di entrambi. Inizia “Churý churúj”. Timidamente la Bittová si lancia in qualche vocalizzo, ma entra la chitarra e parte la canzone, normale e splendida, con il flicorno di Kucera ad arricchirla di sfumature. La chitarra simula il tintinnio delle campanelle e giunge il momento di “Zvon” (Campane). Improvvisamente si inserisce una viola aspra a fare da contrasto e un cantato nasale che rievoca melodie indiane. La chitarra si fa più corposa e apre la scena ad uno splendido alternarsi di voci e melodie, con la tromba in sottofondo. A turno prima Vladimír Václavek, poi Iva Bittová e infine il coro si alternano tra canto principale e voce di sottofondo, con un morbido e ripetitivo "bim bam" ad emulare il suono delle campane. Il brano prosegue in questo magico alternarsi di ruoli, finché in armonia tutte le voci si uniscono magicamente nel cantare il suono di campane. Con “Hujlet” si finisce con il klezmer e la musica ebraica, componente importante della tradizione musicale ceca. Cantato in Yiddish, il klezmer si dimostra anche in questo contesto, essere perfettamente funzionale ad essere integrato in contesti avanguardistici. La Bittová viene lasciata a briglia sciolte e “Hujle”, un po’ folle, un po’ sopra le righe, a degna conclusione per questo immenso disco.
Che altro aggiungere? Siamo di fronte ad uno di quei pochi dischi per cui vale la pena lasciarsi andare in grida d’entusiasmo, un disco che pur nei suoi eccessi riesce sempre ad essere coerente. Siamo di fronte a due grandissimi artisti in pieno stato di grazie, all'apice delle loro carriere, che seppur autori di altri album di ottimo valore, non hanno mai raggiunto mai vette cosi elevate. Chapeau!


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Francesco Inglima

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