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KATE BUSH 50 words for snow Fish People 2011 UK

Difficile inserire Kate Bush in una qualche “categoria” musicale. Difficile pensare a lei come un’artista strettamente legata al mondo del progressive. Di certo è sempre stata amatissima da un enorme numero di progfan. E altrettanto sicuramente ogni suo nuovo album è un evento. E il suo nuovo parto discografico “50 words for snow”, oltre ad essere un appuntamento immancabile per la sua folta schiera di ammiratori, ci mette di fronte una Kate Bush diversa dal solito, pronta a regalarci una nuova opera d’arte che “rischia” di essere annoverata anche come la più bella mai realizzata. Dicevamo di una Kate Bush “diversa”: in questo lavoro il sound è spesso minimale, basato sul pianoforte e su una voce non squillante come ci aveva abituato, ma molto più riflessiva, anche se ugualmente e incredibilmente affascinante. Anche la struttura del disco e dei brani è abbastanza particolare, basti pensare che con le prime tre tracce passa già oltre mezz’ora con una facilità ed un’attrattiva sorprendenti. Composizioni lunghissime, lontanissime dalla forma canzone, così come dalle acrobazie e variazioni del prog sinfonico. “Snowflake” apre il cd e ci mostra subito il minimalismo cui abbiamo fatto cenno: quasi dieci minuti di piano docile e di duetti vocali tra Kate Bush e il figlio Albert, in cui il tema principale è reiterato per quasi tutta la durata della canzone. A corredare il tutto qualche effetto sonoro d’atmosfera e la batteria leggera e jazzy di Steve Gadd. E’ un inizio molto meditativo e malinconico, ma che sprigiona comunque quel fascino magnetico che la Bush da sempre è capace di emanare. A seguire troviamo “Lake Tahoe” (11 minuti), che segue coordinate simili, aumentando i toni drammatici, sia nell’andamento pianistico, sia per la presenza di due cantanti d’opera (Stefan Roberts e Michael Wood). A questo punto siamo pienamente entrati nel clima dell’album e può arrivare il pezzo topico: “Misty”. Nei suoi tredici minuti regala meraviglie continue, partendo subito con piano, voce e ritmi compassati e ancora vagamente jazzistici, ma offre rallentamenti e crescendo di intensità, tra lievi variazioni, passaggi elegantissimi, con spunti classicheggianti ed una interpretazione magistrale della Bush. Soffermiamoci un attimo su questi primi 35 minuti... Le tre composizioni di partenza fanno capire immediatamente come ci sia un distacco netto dal passato, ma pure come lo spirito di ricerca non venga meno. Sembra quasi che ci sia la voglia di far convivere Debussy, Talk Talk e Popol Vuh, in un amalgama sonoro incantevole e intimista. E’ un sound sfuggente e che può essere inizialmente spiazzante, ma che ad ogni ascolto fa capire che Kate Bush è capace anche stavolta di raggiungere vette inaspettate. Siamo ormai nel pieno del cd. Ed è il momento di stemperare un po’ le cose… Ed ecco due brani come “Wild man”, più vicina ad un pop di classe, ma pur sempre in linea con le stramberie bushiane, con ritornello accattivante, ritmi più pulsanti e qualche melodia che profuma vagamente di Oriente, e “Snowed in at Wheeler Street”, dove, accompagnata da un ottimo Elton John, la cantante sfodera una canzone d’amore dalle melodie particolari, avvincente e carica di enfasi. La title-track rappresenta al meglio, invece, il lato eccentrico di Kate Bush, già emerso nel precedente “Aeral”, quando ha cantato i numeri del pi greco. In questo caso affida all’attore Stephen Cry il compito di “recitare” cinquanta parole che possono descrivere la neve (alcune reali, alcune inventate con una fantasia assurda: si va da “Terrablizza” a “Whippocino” da “Zhivagodamabletash” a “Boomerangablanca”, ecc.). Mentre questo avviene, su una base che presenta anche un po’ di elettronica e ritmi ossessivi, quasi da trance, ma per nulla pesanti, lei tiene il conto progressivo e di tanto in tanto si impegna in un refrain in cui ricorda quante parole mancano alla conclusione (e qui la cantante torna su vocalità più alte). In conclusione, troviamo poi “Among angels”, che riporta alle atmosfere iniziali con solo piano, voce e malinconia protagonisti. Può essere interessante anche analizzare rapidamente qualche testo, che conferma come la Bush ami “giocare seriamente”, riuscendo a trovare poesia ovunque. Dedicando “Wild man” allo yeti, per esempio. O narrando del fantasma di una donna, che in abiti vittoriani esce da un lago per andare alla ricerca del suo cucciolo in “Lake Tahoe”. O, ancora, descrivendoci con “Misty”, la surreale storia d’amore tra una ragazza e un pupazzo di neve. Fino ad affrontare ancora una volta l’amore, che sembra viaggiare nel tempo e in diverse città, ma che si conclude sempre con una triste separazione in “Snowed in at Wheeler Street”. Kate Bush supera sé stessa? Forse sì. Con un disco strepitoso. Suggestivo. Misterioso. Invernale e nevoso eppure lontano dal clima natalizio. Volutamente freddo, ma che, come avviene sempre quando Kate ci presenta la sua arte, riscalda cuore e anima.


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Peppe Di Spirito

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