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DEWA BUDJANA Dawai in paradise Demajors 2011 (Moonjune 2013) INDN

Un altro artista indonesiano che grazie alla Moonjune Records varca i confini della notorietà nazionale e si consegna alla ribalta internazionale. Il chitarrista e compositore Dewa Budjana è infatti uno dei simboli della scena musicale indonesiana, essendo tra l’altro chitarrista e songwriter della pop-rock band GIGI (in cui suona anche Gusti Hendy, batterista degli heavy jazz-rockers Ligro), che dal 1994 ad oggi ha sfornato oltre venti pubblicazioni. Prima di allora, una carriera iniziata… rubando i soldi a sua nonna per comprarsi la chitarra! Da quel momento in poi, dopo essere passato dalla nativa Bali a Surabaya (est di Java), una ascesa continua, dovuta soprattutto all’incontro con tanti musicisti esperti che hanno avuto modo di ampliare i suoi orizzonti. Partendo dal rock degli inizi, dopo l’incontro col maestro Jack Lesmana il nostro entra in contatto con il jazz. Il figlio, Indra Lesmana, diverrà uno dei jazzisti più rinomati di tutta l’Indonesia. Un contatto, quest’ultimo, che per il chitarrista sarebbe durato nel tempo.
Tra le esperienze più significative si annovera quella con gli Spirit (niente a che spartire con quelli più famosi di Randy California), con cui realizzerà un album omonimo. E alla fine, senza dimenticare le collaborazioni con altri chitarristi connazionali diventati anch’essi famosi come Tohpati, la biforcazione delle due strade: il pop-rock da un lato e la fusion di ricerca etnica dall’altro. Sì, perché quest’ultimo termine, che oggi (non si capisce bene il perché) pare sia caduto in disuso, sintetizza il concetto di base: la fusione del jazz con una determinata cultura musicale, senza dover per forza ricorrere a chissà quali sotto-categorie. La ricerca del prezioso contenuto inerente alla propria etnicità è più viva che mai e quindi, se proprio lo si vuole, si può anche citare la world music o il (quasi) neologismo ethno-jazz.
“Dawai in paradise” è il suo quinto album, ad otto anni di distanza da “Home”, composto in onore delle vittime dello tsunami del 2004. Quest’ultima fatica è una sorta di raccolta molto particolare, con brani che vanno dal 2000 al 2011, passando per il 2002 ed il 2005. Un melange che quindi presenta un lavoro differenziato, la cui produzione ad opera dello stesso Dewa, però, tende ad uniformare sotto un’unica impronta sonora. Ciò che viene definito dalla stessa etichetta come “una celebrazione della vita attraverso la musica”, è un insieme di esecuzioni che parte con quattro pezzi relativamente recenti (2011): “Lalu Lintas”, “Gangga”, “Masa Kecil” e “Kromatik Lagi”. Nel primo e nel quarto caso, da citare la capacità di esecuzione solista del bassista Shadu Rasjidi, oltre all’abilità multiforme di Budjana: il suo stile è assai fluido e cambia impostazione senza alcuna forzatura. Se in “Lalu…”, il pezzo più duro, il musicista ad un certo punto sfocia nelle dissonanze ritmico-chitarristiche di Fripp e poi in fase solista ricorda le sei corde suonate come un sassofono di Allan Holdsworth, su “Kromatik…” attacca e finisce con il modello “scioglilingua tradotto in musica” di Steve Morse, servito in salsa tipica del sud-est asiatico. Nel mezzo, due composizioni che devono molto allo stile di Pat Metheny, con quei suoni della natura, della foresta, senza però lasciarsi andare alle tentazioni tecnologiche dell’illustre collega, in cui il protagonista stesso rischia di sparire nella densità creata. Qui, con il pieno rispetto dei propri collaboratori, il chitarrista è ben riconoscibile con i suoi begli assoli che richiamano in parte John Abercrombie, Ralph Towner e lo stesso Metheny, anche se i riferimenti pseudo-irlandesi agli arpeggi del già citato Morse di “High tension wires” (uno dei suoi lavori più tranquilli) saranno evidenti anche nel resto dell’album.
Suggestioni Metheniane fin dal titolo in “Backhome”, con il flauto di bambù di Saat Syah (anch’egli presente in buona parte della pubblicazione), la presenza del noto bassista Dave Carpenter e dell’ancor più celebre Peter Erskine, batterista dei Weather Report; tornando immediatamente al 2011 con i dieci minuti di “Malacca Bay”, invece, le atmosfere si giocano sul pianoforte di Ade Irawan e la voce di Ubiet, per un risultato a tratti quasi mediorientale, intramezzato da assoli chitarristici, pianistici e di basso dal grande mestiere jazzistico, un po’ alla John Patitucci.
Ormai la musica scorre su binari assai distanti da quanto si era appena intravisto all’inizio. “Kunang Kunang” e “Caka 1922” del 2000 lo stanno a dimostrare: nel primo, nonostante la base campionata, si ricorda ancora quel particolare stadio di Steve Morse di cui si parlava prima, mentre nel secondo la chitarra si accompagna con strumenti ad archetto. Ennesimo ritorno sulle orme di Metheny con “Rerad Rerod” (2002), dove delle voci giovanissime intonano i loro canti onomatopeici, sospinti dall’armonica di Howard Levy (Bela Fleck & Flectones). Andando verso il 2005, “On the Way Home” – superate le partiture che sembrano composte per qualche ristorante cinese – mette ad un certo punto in risalto la grande tecnica fluida e cangiante di Budjana; “Dancing Tears” è un episodio assai complesso e suggestivo, in cui erge tutto l’estro pianistico di quel Indra Lesmana di cui si parlava nell’introduzione, senza contare Peter Erskine, il basso di Reggie Hamilton ed il solito flauto di bambù. Chiusura col solo Dewa su “Devananda”, dove si sente piangere un neonato tra varie chitarre effettate.
“Dawai in paradise” è un’opera da ascoltare con attenzione, non fosse altro che per capirne bene i passaggi, carichi di riferimenti ma allo stesso tempo di forte personalità. Lo si apprezza maggiormente se ci si predispone al rilassamento, in modo tale che la mente si apra.
Dopo questo lavoro, per la Moonjune Records verrà pubblicato “Journey”, inciso nel 2012 con personaggi del calibro di Larry Goldings, Bob Mintzer, Jimmy Johnson e sempre Peter Erskine. A seguire, sarà la volta di un’altra release per il 2014, già comunque terminata nel gennaio del 2013.


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Michele Merenda

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