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BELIEVE Hope to see another day Galileo Records 2006 (Metal Mind 2013) POL

E’ proprio di questi giorni la pubblicazione della nuova fatica discografica dei Believe (la quinta per l’esattezza), “The warmest sun in winter”. Praticamente in contemporanea, la sempre prolifica Metal Mind mette sul mercato la versione rimasterizzata (con l’aggiunta di un paio di tracce “live” come bonus) dell’esordio della band polacca, “Hope to See Another Day”, datato 2006. Per i più distratti ricordiamo che il gruppo nasce dopo lo “split” dei Collage e grazie all’impegno del suo chitarrista, Mirek Gil, di dare un seguito a quella esperienza.
L’approccio di “Hope…..” è però molto più deciso e diretto rispetto a quello dei Collage ed il songwriting più schematico ed anche prevedibile. Il violino di Satomi (uno dei protagonisti dei lavori successivi) rimane sempre o quasi in secondo piano lasciando spazio anche eccessivo alla chitarra del leader. Ciò non toglie valore a brani come l’iniziale “What is Love”, dalle atmosfere dilatate e dalle sonorità gilmouriane, o come la successiva “Needles in my brain”, dal ritornello ammiccante e amabilmente melodica. Una sorpresa è rappresentata da “Liar”, o meglio, dalla versione live del brano (uno dei due bonus appunto): se la versione in studio è sì più complessa ed articolata di altri pezzi, ma pur sempre nella scia di questi ultimi (ottimo il finale chitarristico), il brano dal vivo beneficia di un arrangiamento decisamente diverso e le tastiere ed il violino danno più profondità e pathos alla musica che ne guadagna sensibilmente.
L’altra track presente in duplice veste è “Pain”, probabilmente quanto di più vicino alla successiva produzione del gruppo: l’imprinting è sempre chitarristico, ma più rarefatto e d’atmosfera. Sul palco viene dato maggior spazio al violino di Satomi ed è pure accentuata (con profitto) la componente acustica. Da segnalare il solito bel “solo” di Gil a cui certo non manca il gusto melodico.
Perfetta la voce “roca” di Rozycky per la graffiante “Seven days”; atipica per le sue ritmiche particolari, quasi tribali, “Coming home”.
La title track di oltre 12 minuti chiude la raccolta. La struttura compositiva è ormai consolidata, la melodia sgorga con facilità e dolcezza, ma ormai prevedibile. L’esordio è comunque da considerarsi positivo ma ancora lontano da quanto il gruppo saprà fare in futuro accentuando la componente malinconica e le atmosfere rarefatte. Inutile aggiungere che proprio queste ultime siano le più emozionanti.


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Valentino Butti

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