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BLUE DAWN Edge of chaos Black Widow Records 2017 ITA

Il quartetto genovese è arrivato al terzo album, inquadrando in via definitiva il proprio stile lungo la scia più macabra dei Black Sabbath e dei Pentragram (che ad onor del vero si trovavano on the road prima di Ozzy e compagni). Si tratta di heavy rock appesantito dalle vesti funeree del doom, i cui contatti col prog potrebbero al massimo essere rintracciati in alcuni spunti dark della tradizione italica, confluiti poi nella cinematografia nazionale durante gli anni ’70. Le parti più riuscite sembrano essere quelle ad opera degli ospiti, i quali però compaiono per quasi tutto l’album e quindi si fa decisamente fatica a non ritenerli parte integrante della band stessa. Gli assoli di Caesar Remain dei Path Of Sorrow alle sei corde e gli interventi tastieristici di James Maximillian Jason – anche coautore di alcun brani – rientrano quindi tra gli elementi migliori di un’uscita che sicuramente sarà promossa a pieni voti dai sostenitori più accaniti del settore e anche da quelli che ricercano nel metal delle (nere) radici con cui poter andare indietro nel tempo, fino a giungere a ciò che viene volgarmente chiamato proto-metal. Per tutti gli altri, però, la situazione è ben diversa. La produzione è affidata a Freddy Delrio dei Death SS, che compare con le tastiere nell’iniziale e atmosferica “The presence”, da lui composta. Tutti sembrano entusiasti e in effetti, se si voleva creare la sensazione di un cd in cui è stata riversata la musica di un vinile registrato a suo tempo in mono, allora il risultato è stato raggiunto in pieno. Sì, perché questo sound che deve assolutamente suonare antico, analogico, seventies, da long playing di oltre quarant’anni fa, paga dazio alla qualità sonora. Probabilmente il ricreare qualcosa di terroso e cupo era quanto ci si era prefissati fin dall’inizio e c’è da credere che tanti grideranno alla piacevole meraviglia, ma non bisognerà stupirsi se invece ad altri irriterà non poco. Una scelta che sembra aver messo il cuscino sulla voce di Monica Santo, che può dare all’ascoltatore molto più di quanto si possa qui sentire in buona parte delle canzoni, per non parlare di Enrico Lanciaprima; il suo basso rimane un punto forte, chiaramente ispirato a Geezer Butler, ma quelle volte in cui si sente cantare, lui sceglie (perché di scelta si tratta!) tonalità inespressive, probabilmente per ricreare l’effetto di una narrazione dannata. Nonostante questo, l’ultimo lavoro del gruppo ligure va ascoltato con un buon impianto, meglio ancora con delle cuffie, per cogliere alcuni elementi tipo l’incrocio di chitarre soliste sull’ossessiva “Sex (under a shell)”, che termina con una breve sfuriata di Roberto Nunzio Trabona al sax. Le tastiere iniziali di “The perfect me” riportano a quell’atmosfera italica di cui si parlava prima, facendo nuovamente capolino di tanto in tanto durante un pezzo come al solito molto cadenzato, prima del gran finale giocato in velocità con la chitarra elettrica. Tra gli episodi migliori c’è la strumentale “Serpent’s tongue”, caratterizzata da un attacco assolutamente Crimsoniano. Molto riusciti gli assoli chitarristici velocissimi e distorti, ben intervallati dai sintetizzatori; anche quando il suono è in stile “Bontempi”, l’ambientazione rimane sempre ben strutturata. È una fase molto delicata dell’album, perché da questo momento la musica si fa a suo modo più riflessiva. La nera ballad “Dancing on the edge of chaos” è caratterizzata dalla voce atonale di Lanciaprima intervallata da quella della Santo, tra cui si inseriscono bene sia gli arpeggi che il sassofono, dal suono ben definito, prima dell’arrivo di un altro valido assolo di chitarra e una conclusione in cui fanno bella mostra i vocalizzi in secondo piano della cantante.
Dopo il passaggio dei sintetizzatori di “Wandering mist”, c’è “Black trees” che alterna fasi più soffocate ad altre in cui le nubi sembrano avere la tentazione di schiarirsi, con una gran coda lasciata ancora una volta alla chitarra imperante di Caesar. “Burst of life” passa dal solito martellamento ad una parte melodica davvero piacevole, in cui Monica Santo canta quasi da soprano accompagnata con un pianoforte malinconico, a cui segue in sequenza un altro assolo delle sei corde e un basso distorto, prima della buia chiusura. Alcuni hanno parlato della complessità di “Sorrow of the moon”, citandolo come uno dei pezzi più riusciti; non poteva essere altrimenti, visto che si tratta di una cover dei Celtic Frost, gruppo svizzero abbastanza originale nella sua fascia stilistica. Il sound si ripulisce di colpo con “Baal’s demise”, aperta da un bel lavoro di basso e sassofono, ben supportati poi dalle voci di Monica Santo e Marcella Di Marco, prima di lasciare la scena ad un assolo crescente affidato al chitarrista Matteo Ricci, ben spalleggiato ancora una volta dal sassofono che fa bella mostra di sé. Chiude la bonus track “Unwanted love”, dove la voce di Lanciaprima sembra un po’ più coinvolgente e Monica Santo si esprime meglio grazie proprio alla “pulizia” sonora avvenuta nella parte finale.
C’erano tutte le premesse per creare un gran bell’album (non di stampo prog, sia ben chiaro) e forse, per gli adepti attuali degli eredi del Sabba Nero, i nostri ci sono anche riusciti. Le scelte sono state ben precise e in campo hard & heavy (si parla sempre della scena odierna) i Blue Dawn raccoglieranno enormi consensi. Uscendo da questa cerchia, tali scelte destano comunque delle perplessità. Non è certo poi un gran male, se si è fermamente convinti dei propri obiettivi.



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Michele Merenda

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