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AARON BROOKS Homunculus Gentle Art of Music 2018 USA

Aaron Brooks, ex cantante della band psichedelica statunitense Simeon Soul Charger, esordisce come solista. Si è parlato di psichedelia, di rimandi prog, persino di Gong e Pink Floyd, ma le tredici (per lo più) brevi tracce non sono altro che cantautorato a stelle e strisce in cui il calore battente delle distese arse e assolate la fa da padrone, assieme a testi amari di denuncia che sfruttano anche l’autoironia. Tutto ciò, di certo, non sminuisce a priori la proposta, ma era giusto per dire che di rock progressivo – come spesso accade in questi casi – non ce n’è per niente, nonostante i proclami delle case discografiche e dei presunti mezzi di informazione settoriale. Quindi, tanto per continuare nella polemica, ci si chiede una volta per tutte se questi album vengano davvero ascoltati oppure no… Già, perché in questo caso ci sono addirittura dei rimandi a un certo tipo di post-grunge (fin dai titoli), anche se smussato dalle sue congenite spigolosità e dissonanze. Tutto questo, comunque, pur rimanendo nella sua semplicità viene ben prodotto, ben arrangiato e reso attuale, nonché suonato con l’inserimento di piccoli particolari che vanno colti con il passare degli ascolti. È il caso dell’iniziale “Consume”, la maggiormente complessa “Everybody dies”, la più pacata “Lies” (molto Screaming Trees) e soprattutto “Jesus”, che sarebbe stata benissimo su un eventuale secondo album dei Temple of the Dog, ricordando anche certe uscite “moderniste” dei The Cult.
Ci sono però anche alcune ballate davvero moto belle, rese tali da un’ottima interpretazione vocale e dalla presenza di pianoforte, chitarre sia acustiche che elettriche e spesso strumenti ad archetto, elementi sempre ben bilanciati e già presenti nella vecchia band. Su tutte c’è “You are just a picture in a frame”, che sembra ispirata da qualche lento in stile David Bowie, in cui l’unica pecca consiste nel finale immediato, proprio quando si stava assaporando un certo crescendo musicale; ma il significato di questa scelta, forse, è da ricercare nel titolo stesso. Poi c’è “Nobody knows what it’s like to be someone else”, che recupera scaltramente vecchi e collaudati stilemi di matrice blues, dove l’immagine è quella di un loser che cammina inesorabilmente senza meta a testa bassa, con le mani in tasca, lungo una strada più solitaria di lui. Ma anche “The idiot” si inserisce su questo filone, ricordando un Mark Lanegan solista magari meno essenziale e dalla voce non così “arida”. Più teatrali – quasi da accostare per certi versi ai Muse – sono “I’m afraid”, tra violini e violoncello, e “Wake up the mountain”, in cui la melanconia regna sovrana per sfociare in un finale tipico del gruppo britannico. “Bodega Bodega” è una inesorabile ballata popolare da vecchio continente (nel finale mancano solo i cori russi alticci!), “What is a man but an animal’s end” mischia questi aspetti tradizionali europei con l’alternative teatrale dei succitati Muse (anch’essi europei, come detto), creando una combinazione ostica che – volendo – consiste nella partitura maggiormente “progressiva” dell’intero lavoro, anche se a sua volta non consiste certo nella massima vetta qualitativa. Da nominare anche “By your halo or the fork of your tongue”, che deve molto al country-rock di Tom Petty, e la conclusiva “Digital”, abbastanza robusta ma che non presenta chissà quali caratteristiche memorabili.
Sembrava cosa da poco, invece sono occorse molte parole per parlare di questo primo lavoro di Aaron Brooks, nonostante l’apparente semplicità dei contenuti. Ci si augura che continui così e che sviluppi ulteriormente certe buone idee, preferibilmente facendo riferimento a quelle che sono le sue reali connotazioni musicali. Un messaggio rivolto anche e soprattutto alla sua label. Questo dischetto, intanto, al di là di qualsiasi definizione si ascolta con un certo piacere.



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Michele Merenda

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