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CHAOS CODE Propaganda autoprod. 2005 USA

La sensazione di avere a che fare con dischi godibili, prodotti in modo esemplare, accompagnati da un booklet dalla veste superlativa (possibilmente prodotta con sofisticati programmi di computer graphics), suonati in modo impeccabile usando arsenali di tastiere analogiche e pedali-basso d’antiquariato, ma in ultima analisi vuoti come scintillanti forzieri privi del tesoro, credo sia qualcosa di ben noto a tutti noi acquirenti di nuove produzioni di progressive rock, e il fenomeno sembra essersi fatto via via più frequente in questi ultimi anni.
E’ forse come reazione a questo imperante trionfo della forma sulla sostanza che mi sento di salutare con favore il terzo album dei Chaos Code, formazione di navigati musicisti nata nel 1997 attorno agli studi Orion Sound di Baltimora, che ci propongono finalmente qualcosa di assolutamente non ruffiano, imperfetto ma sincero, originale senza essere cervellotico, sinfonico ma non imbellettato e soprattutto non confezionato in modo da concorrere al titolo di next best thing del prog statunitense.
Dopo varie vicissitudini che hanno portato a numerosi cambi di formazione (il più rilevante la perdita del polistrumentista Mike Potter), la band ruota attorno alla figura di Cliff Phelps, principale compositore nonché voce, chitarra, synth, piano e flauto – insomma cervello e braccio di questi Chaos Code, che nella loro recente incarnazione priva di un tastierista di ruolo vede enfatizzato il ruolo della chitarra nell’economia strumentale. A completare i ranghi, il bassista Gary Curtis, il batterista Patrick Gaffney ed alcuni ospiti a sax tenore, tromba e cori.
Fa piacere dover descrivere la proposta di una band odierna senza usare riferimenti scontati ed immediati a band del passato, così ci troviamo a parlare di un rock dominato da una chitarra elettrica graffiante ma totalmente priva di inflessioni metal (forse un po’ debitrice verso Martin Barre) che spesso lascia spazio ad interventi discreti di flauto o di piano elettrico Rhodes, unico strumento a tastiera presente assieme ad un synth mai in primo piano.
Le sezioni cantate sono assai limitate e la timbrica di Phelps è a volte ruvida e sgraziata, ma gli interventi corali smussano le asperità, un po’ come avviene con le armonie vocali degli Echolyn: probabilmente la natura concettuale delle liriche (il tema è la manipolazione mediatica ed è trattato usando la metafora dell’invasione da parte di un agguerrito esercito di insetti…) richiede una certa teatralità nella loro esposizione.
In alcuni frangenti, specialmente nell’apertura “The chameleon” o in “Saturated”, grazie al ruolo svolto dal sax, il nostro pensiero – sempre a caccia di associazioni di idee! – può andare verso alcune band inglesi di inizio 70’s come Gnidrolog, Skin Alley o Raw Material, che spesso e volentieri coniugavano interventi fiatistici a strampalate linee vocali, mentre molto meno marcato sembra essere il parallelo con i primissimi Jehtro Tull, con i momenti più aggressivi dei Gentle Giant o con le Mothers del loro concittadino Zappa.
Più rari, ma non assenti, episodi di natura riflessiva come la strumentale “Calling to shadows”, solo chitarra acustica e tromba o la mini-suite “The last assignment” dall’arrangiamento un po’ dispersivo e rarefatto.
Riallacciandomi all’introduzione, potrei sintetizzare il giudizio su quest’album definendolo un buon antidoto ai troppi album plastificati prodotti in serie e a scadenza regolare, consigliandolo in particolar modo a chi preferisce piccole digressioni in ambiti jazz-rock e moderatamente sperimentali rispetto allo sfoggio dei soliti barocchismi e tecnicismi ormai ampiamente abusati specie a queste latitudini.

 

Mauro Ranchicchio

Collegamenti ad altre recensioni

CHAOS CODE A tapestry of afterthoughts 1999 
CHAOS CODE The tragedy of leaps and bounds 2002 

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