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MARK DEAN'S CALDERA No man is an island Amethyst Edge Productions 2011 USA

Se analizziamo la dicitura “progressive metal” e decidiamo di tradurla alla lettera (consci che “tradurre” vuol dire “tradire”), potremmo ottenere “metallo progressivo”.
La proposta di Mark Dean può, alla luce di ciò, essere considerata “progressiva”? In senso lato, sì. Ma proprio come questo forzato accostamento, la proposta musicale appare parecchio cervellotica. E non si sa quanto realmente pregna di contenuti. Possiamo dire che quest’album, suonato interamente e prodotto dallo stesso Dean (fatta eccezione dell’urlo su “Oh My God”, che è di Levi Dean Miller…), è una raccolta di brani che vanno dal 2002 al 2010; ed in determinati casi questa differenza di tempo si sente tutta.
Le timbriche ed il cantato, certo non molto musicale, denotano una precisa volontà di apparire “alternative” e di mantenersi in linea con un modo di fare metal abbastanza contemporaneo: niente romanticismo ed aloni di tragedia fantasy, bensì uno scontro diretto con l’ascoltatore, inchiodato dalla cruda realtà.
Nell’iniziale “God Help Me” si parte con degli effetti e poi ci si lascia andare con controtempi di natura inequivocabilmente “pesante”. Vengono in mente certe cose dei King’s X (che proprio prog non sono) e degli Heaven’s Cry in un formato meno creativo.
“Reptilian Girl” apre con una base decisamente irritante, risollevata in parte da dei licks complessi che si rifanno al primo Joe Satriani, più precisamente a quello di “Not of this Earth” (quindi puramente tecnico e non ancora molto comunicativo).
“Love in Vain” vorrebbe essere una specie di disillusa ballad, in cui il cantato monocorde potrebbe anche avere un senso. Il ritornello in cui viene ripetuto il titolo somiglia ai brani cantati del Ron Thal meno musicale. Parzialmente riuscite le brevi parti strumentali.
“Kings Row” denota un cantato migliore e delle ritmiche stavolta più prog. Nel finale, addirittura, ci si avvicina agli U2!
“Do I care” è caratterizzato da dei controtempi di basso parenti lontani del funky e l’interpretazione non è più statica come nei brani precedenti. Gli assoli piaceranno agli amanti dello shredding puro. Anche qui ci sono degli accostamenti a Ron Thal.
Molto interessante “The Gipsy Ears”, giocata parecchio sulla lunga intro d’atmosfera e sulle doppie voci create tra gli sbraiti (non si possono definire altrimenti) vocali e le trovate chitarristiche.
“Across the Way” è un brano più maturo, grazie al quale capiamo che nel corso degli anni Mark Dean è cresciuto sia dal punto di vista tecnico che musicale. Ci sarebbe voluto un assolo bello lungo, in questo caso.
“Eluding Connie at Trixtie’s Gig” è poco più di un minuto composto da dei sequencer interrotti da uno sporadico pianoforte, preludio a “Climb the Cliff”, dai riff monolitici e delle parti vocali che finalmente non sono semplici strepiti ma degli acuti con una loro ragione logica. Il brano, molto heavy, è intervallato da degli stralci atmosferici.
“50k Watts” vorrebbe essere una sorta di techno-metal con contrappunti chitarristici a la Rob Jarzombek, risultando discreto nel suo genere.
“Looking for Conscious” è un breve intermezzo, mentre la conclusiva “Oh My God” inizia pesante e poi diventa decisamente soft, con partiture d’atmosfera, approdando di colpo a delle battute barocche.
Probabilmente Mark Dean dovrebbe partire proprio dagli ultimi brani e studiarci sopra, magari con una band vera. Ma fino a questo punto, con questa crisi globale, appare difficile che tanta gente possa spendere chissà quanti soldi nella sua opera prima. Da rivedere.


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Michele Merenda

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