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CROWNED IN EARTH A vortex of earthly chimes Black Widow 2012 UK

Si guarda la copertina di quest’album ed istintivamente si pensa ad un contenuto musicale che viaggi sulle coordinate degli Uriah Heep, tale è la somiglianza con i loro storici artwork. Certo, poi si guarda anche il retro, che a sua volta potrebbe ricordare (con la sua aria di “ruralità al crepuscolo”) un album come “Underground and beyond” dei Lucifer Was, e magari qualche dubbio comincia a sorgere. Finalmente lo si ascolta e si comprende di aver preso solo abbagli: un rock sabbathiano dai ritmi ovviamente assai cadenzati, che potrebbe tranquillamente far classificare i Crowned in Earth come una doom band.
Il secondo lavoro del factotum Kevin Lawry vede anche stavolta la collaborazione del batterista Darin McCloskey, oltre al produttore Brian J Anthony che si occupa delle parti di Mellotron. Solo cinque pezzi, mediamente lunghi, che nella prima parte si attirano alcune critiche. “Ride The Storm” (dodici minuti, la cui intro lugubre è costituita dal rumore di un temporale. Ricorda forse qualcosa?) e “Watch The Waves” (undici minuti e mezzo), pur presentando dei cambi d’atmosfera repentini che spiazzano di colpo l’ascoltatore, avrebbero dovuto sfruttare il loro lungo lasso di tempo per dare vita a delle variazioni strumentali, invece di insistere sempre sul solito incedere “funereo”. Molto efficaci le fasi di basso, ma a mancare sono proprio quelle puntate chitarristiche assai incisive che caratterizzavano i migliori brani dei Black Sabbath, spezzando così i ritmi anche delle canzoni più monotematiche. Diciamo pure che tutto questo viene in parte smentito proprio nel finale di “Watch…”, ma quando si ha la sensazione che qualcosa stia partendo, ecco che è già tutto finito.
Un discorso diverso, invece, va fatto con le relativamente brevi “World Spins Out Of Key” e “Winter Slumber” (che si aggirano entrambe più o meno attorno ai sei minuti), dove Lawry inserisce i necessari interventi strumentali di cui si parlava. Nonostante non siano particolarmente elaborati, chitarre, organo e mellotron creano un’ottima atmosfera Seventies che riqualifica l’intero operato. Si chiude con gli oltre undici minuti di “Given Time”, dove sembra che si sia davvero imparata la lezione, con ancora convincenti e ficcanti variazioni strumentali.
Il responso finale su quest’album? Discreto, alla fine. Se Kevin insisterà con l’elaborazione dei momenti migliori di “A vortex…” di cui si parlava poco sopra, potrebbe anche competere con altri gruppi illustri come Cathedral e Pentagram, anch’essi devoti al Verbo in chiaroscuro (più scuro che chiaro) dell’antico Sabba Nero. Se poi si svilupperanno ulteriormente le parti vintage tastieristiche, sarebbe anche lecito parlare di eventuali contatti col mondo del prog (anche se i due aspetti non sono per forza di cose strettamente connessi).


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Michele Merenda

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