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SPYROS CHARMANIS Wound autoprod. 2012 GRE

Addentrato fin da giovanissimo nel mondo della musica classica come suonatore di oboe nella Youth Orchestra di Volos, il polistrumentista Spyros Charmanis col passare degli anni si è avvicinato a diverse realtà che ne hanno plasmato via via l’approccio alla musica stessa. Lo studio della chitarra, della batteria e del basso, a cui si sono associati gli ascolti di modelli orecchiabili e di successo come Beatles e Simon & Garfunkel, ha fatto sì che venissero tracciate delle nuove coordinate indirizzate verso un determinato territorio prog-rock.
Contrariamente a quanto sostenuto da molti, “Wound” non è affatto un esordio discografico, in quanto preceduto da “Just another story” nel 2007. Oggi Charmanis torna con un complesso concept album, dalle atmosfere cupe che potrebbero far pensare ad un misto tra il modo di sentire dello Steve Wilson solista ed una specie di Fates Warning dell’era “Parallels” (quasi) totalmente scevri da durezze metalliche. Qualcosa che presenta un fondo ermetico, quindi, e che occorre essere ascoltato più volte con molta calma, senza farsi prendere dalla smania di andare oltre per sapere come va a finire. Ma qui subentrano le due critiche di cui Spyros è stato oggetto anche di altri recensori: la lunghezza eccessiva dell’intero lavoro ed il pericolo di rovinarsi la vista nel leggere il booklet di ben sedici pagine. Per le atmosfere che spesso diventano plumbee, rifacendosi alle melodie dei modelli di cui sopra e affiancandoci ogni tanto pure i vecchi Genesis, oltre settanta minuti diventano davvero eccessivi; le parole piccole scritte in rosso su uno sfondo nero (sul cui retro si intravede un volto sfumato), inoltre, scoraggiano chiunque desideri approfondire il discorso sul concept. E così, avendo puntualizzato degli aspetti che sembrerebbero davvero oggettivi, accontentiamoci di sapere che la storia parla di un viaggio nelle buone intenzioni, decisioni sbagliate, fratture emozionali e drastiche risoluzioni, terminando con un’emblematica “Say goodnight”.
Già l’introduttiva “Pushing the sky” svela quanto aspettarsi: un inizio strumentale, la narrazione di un segmento di storia che richiede un determinato tipo di cantato ed infine lo scroscio strumentale finale. Si tratta di qualcosa simile al neo-prog, magari anche al prog sinfonico, suonato solo con l’ausilio sporadico di qualche turnista. Ma in effetti l’autore mediterraneo l’ha pensata bella, sfruttando degli stilemi britannici che poi sfociano anche nel parossismo delle atmosfere da storiaccia statunitense. Molti gioiranno (ed altri imprecheranno) nell’ascoltare “The great outdoors”, che ricorda l’orecchiabilità degli svedesi Moon Safari con tanto di chitarra slide, anche se subito dopo ci si incupisce drasticamente con la strumentale “Entry wound”, proseguendo con “Subconscious”, le cui strofe sono riconducibili a quelle dei concept elaborati dagli Shadow Gallery private dai vari orpelli ultra tecnici, ma con un finale cadenzato che risuona nella testa più di una campana a morto, mentre il pianoforte ed i fiati in secondo piano disegnano la propria oscura sinfonia. La prima parte si chiude con “You’ve met someone”, che deve decisamente qualcosa ai Pink Floyd di “Obscured by clouds”.
Quasi tutti questi elementi verranno ripresi nei brani seguenti, creando un unicum compatto e comunque abbastanza dettagliato, con l’inserimento anche di strumenti acustici come variazione delle sensazioni prima dell’apice emotivo di tracce tipo “Hinder”. E dopo? Ci sarebbero la particolare “Open wound” e poi i dieci travagliati minuti di “Exit wound” ( i riferimenti alla parola chiave della storia, ovviamente, saranno volutamente non casuali), con distorsioni chitarristiche e percussioni in controtempo.
È vero, alla lunga l’album stanca. Ma ci sono innegabilmente dei bei contenuti. Paradossi della musica, a cui si può comunque ovviare snellendo ogni tanto la propria opera. Sempre che lo si desideri veramente.


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Michele Merenda

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