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GADI CAPLAN Morning sun Musea Records 2016 ISR

Artista israeliano con base ormai fissa negli USA, Gadi Caplan – lo è stato già detto nelle precedenti recensioni – comincia a studiare piano, passa poi alla chitarra e si interessa alle differenti culture musicali grazie anche ai suoi viaggi per il mondo (soprattutto in India tra il 2004 ed il 2005, dove ha studiato il sitar). Oscillando tra il rock, il jazz e la fusion – approfondendo i vari generi al Berklee College of Music –, Caplan pubblica due lavori solisti e nel 2014 entra nei newyorkesi The Weeping Willards come chitarra solista. Per questo terzo album, il chitarrista originario della terra d’Israele si avvale della collaborazione di Danny Abowd, cioè proprio il cantante e compositore del gruppo statunitense di cui sopra. Di certo, le composizioni firmate solo da Caplan si differenziano da tutto il resto. L’iniziale “Hemavati” parte come una composizione minimale che man mano si va concretizzando in un fumoso jazz leggero da atmosfera, in cui poi si concretizza il chitarrismo visionario dell’autore, che muovendosi tra retaggi indiani e mediorientali sale sempre più di intensità in una dimensione da nirvana (purtroppo non dura molto). E poi c’è “Lili’s day”, divisa lungo i quattro pezzi finali. Una prima parte ipnotica, quasi da locale chill out colto, che sfocia nella seconda sezione in cui uno strumento a fiato trasfigurato (presumibilmente il sax tenore di Jonathan Greenstein) suona come il commento di una chitarra elettrica. Quest’ultima si fa sentire nella terza parte, sulla base dettata da una batteria marziale. Chiusura con una triste e contrastata quiete.
Nel mezzo degli episodi strumentali sopra menzionati, invece, i brani cantati da Abowd, che sanno molto delle fole di Canterbury. Non quelle strampalate di David Allen, bensì le favole dai colori tenui narrate dai Caravan prima di lanciarsi nelle lunghe esplorazioni dei propri strumenti. Senza dimenticare un piccolo tocco dei Beatles più psichedelici, che certo non guasta. Tutto questo si può ritrovare in “Island”, con la sua bella parte centrale, in cui synth e chitarra si lasciano beatamente ascoltare, perdendosi in pensieri che portano lontano, grazie anche al bel lavoro dietro le pelli di Bruno Esrubilsky che permette di facilitare il processo creativo. Altri brani da menzionare, in cui il cantato lascia il passo poi a passaggi strumentali che somigliano a promettenti bagliori delle prime luci dell’alba, sono “Vivadi Swara” e “The Other Side”, mentre “Good Afternoon”, la title-track e “La Morena” ribadiscono la natura quasi eterea dell’intero lavoro, che sfiora il viso e forse si riproporrebbe di scendere ai livelli più profondi del concetto di spiritualità. Qualcosa che in un primo momento sembra scivolare via fin troppo velocemente.
Gadi Caplan, pur avendo ottime capacità tecniche sul proprio strumento, si conferma ancora una volta più compositore che puro e semplice chitarrista. Come accade in questi casi, spesso la propria figura tende ad annullarsi nel Tutto. Di certo, le sfumature di violini e fiati vari, opportunamente mixati, creano un significato diverso rispetto a composizioni che invece risultano scevre da tanti piccoli accorgimenti. Prima si parlava di nirvana; sembrerebbe che il nostro vi si sia abbandonato completamente, come starebbe a suggerire la produzione pacata ad opera di Jesse Gottlieb, peraltro bassista dei succitati The Weeping Willards, che qui forse va ad indugiare troppo su volumi bassi e poco dinamici. Un altro tassello nel cammino musicale, evolutivo e spirituale di Gadi Caplan. Non si sa quanti lo apprezzeranno davvero. Chi lo farà con sincerità e non per mera apparenza, potrebbe però vedersi aprire le porte verso un modo differente di intendere la vita. Non migliore o peggiore. Semplicemente differente.



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Michele Merenda

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