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CRYSTAL BREED Barriers Keymedia.TV 2016 GER

Dopo quattro anni dall’esordio, i tedeschi Crystal Breed tornano con la novità del nuovo bassista Nico Deppisch, confermando il resto della formazione. Il prog-metal da loro oggi proposto, nelle parti strumentali, è molto simile a quello tecnico e accattivante degli Shadow Gallery, rifacendosi anche (e a maggior ragione) al hard-prog dei Kansas. Il sound è molto più delineato rispetto al passato, c’è parecchio spessore, con un chiaro occhio agli anni ’70. L’intento di essere comunque originali viene più o meno portato avanti con coerenza, anche se l’iniziale “The Brain Train” fa sorgere alcuni dubbi sulle scelte intraprese. Un buon attacco, con tastieroni in bella evidenza, ma il cantato sembrerebbe avulso da tutto il contesto. Elemento, questo, che era già stato notato sul precedente lavoro, come se mancasse un collante tra le due parti. Per come si evolverà l’album si capisce che è stato un effetto voluto, che però non fa poi tutta questa bella impressione. Ben altro risultato è quello ottenuto con i dici minuti e mezzo di “Barrier of Ignorance”, in cui si parla dello scoraggiamento che si prova quando tutti gli altri proprio non ci capiscono ed anzi ci avversano, con l’obbligo però di non mollare mai perché c’è comunque chi ci sostiene. I riferimenti musicali sono chiaramente quelli sopra citati, con delle lunghe parti strumentali da mozzare il fiato, talmente complesse da far venire in mente un pezzo come “The Dance of Eternity” dei Dream Theater. Purtroppo, qualcosa di analogo si ritroverà solo nella penultima “The Castle”, dove la sezione ritmica Nico Deppisch-Thorsten Harnitz si dimostra affidabilissima, con le tastiere di Corvin Bahn che come sempre fanno la parte del leone. Ma va citata positivamente anche la conclusiva “A Prisoner of the Present”, impreziosita da un ottimo assolo finale del chitarrista Niklas Turmann, che cresce sempre più di intensità e che ad un certo punto sembra estendersi verso l’infinito. Belli anche gli acuti vocali che lo precedono, anche se non è dato sapere chi ne sia l’autore (sia Turmann che Bahn sono accreditati come cantanti).
Nel mezzo ci sono “Liar to Yourself”, la ballata “Dying Stars” e “No Escape”, che si sforzano fin troppo di essere una specie di hard melodico con intrecci prog, dilungandosi eccessivamente e rivalutandosi grazie agli assoli dello stesso Turmann, molto netti e ben definiti nei loro contorni. Se si parla di ballad, forse “Memories of…” risulta quella riuscita meglio, nonostante anch’essa sia stata un po’ stiracchiata. In effetti, un difetto dell’album è proprio quello di essere composto da canzoni che alla fine si rivelano fin troppo lunghe, senza poterselo quasi mai permettere.
Il ritorno del quartetto di Hannover parla in generale di barriere, soprattutto mentali, descrivendo con un po’ di sana ingenuità quelle che sono delle situazioni sociali concrete. Se questo lavoro si fosse basato sui modelli di quei tre-quattro pezzi, sarebbe stato qualcosa di notevole. Così non è, quindi si può parlare “solamente” di una discreta pubblicazione. La band ha scelto di puntare alla melodia, ma per far questo occorre adesso elaborare dei refrain che risultino vincenti e che rimangano stampati nella mente. Per quanto riguarda le capacità tecniche, non vi è assolutamente nulla da dire.



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Michele Merenda

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