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CIRKUS IV - The blue star Ramshaw Records 2017 UK

Tantissimi sono i gruppi che oggi vengono visti come “minori” nella vastissima scena prog della Gran Bretagna dei seventies. Grazie all’album “One” i Cirkus sono ancora oggi molto considerati tra questi, per merito di una proposta che non cercava tanto la maestosità o la spettacolarità di suite, tempi dispari e tecnicismi, quanto piuttosto delle intense trame melodiche ed un romanticismo di base abbastanza accattivante. Con queste armi la band è riuscita a conquistare un buon numero di appassionati. Un effimero ritorno negli anni ’90 aveva portato ad altre due pubblicazioni, rimaste però abbastanza inosservate. Nel 2016 il batterista storico Stu McDade è deceduto, lasciando delle vecchie registrazioni non finite. I vecchi compagni di avventura, con l’aiuto di vari collaboratori, hanno deciso di ripartire da queste per dedicargli un nuovo album, intitolato “The blue star” e introdotto da una copertina disegnata da Adam McDade, il figlio di Stu e che, oltre a rimandare a quella del primo storico lavoro, vede anche un dettaglio in cui figura una sorta di sottotitolo con la calligrafia dello stesso Stu.
Questo nuovo parto discografico alterna momenti ispirati e qualche caduta di tono. Il brano di apertura “Crossing the Rubycon” si contraddistingue per un aggressivo hard-rock, che si stempera dopo un minuto con la parte cantata su arpeggi acustici. La dinamica del brano prosegue in questo modo fino alla fine, tra spunti strumentali prepotenti e sussurri dalle caratteristiche folk e classicheggianti. Se vogliamo ritrovare tracce dei primi Cirkus le possiamo individuare nella composizione che dà il titolo al disco e nella raffinatezza di “From the grey skies”, in cui viene recuperato e portato a nuovo un progressive rock romantico dalle piacevoli suggestioni. Il top dell’album è probabilmente “Requiem”, che parte lentamente e in maniera malinconica e va poi in un piacevole crescendo, mai sopra le righe, che può ricordare i Barclay James Harvest. Sicuramente ben fatta anche la mini-suite conclusiva “Close encounters of the fifth kind”, che avanza tra cambi di tempo e di atmosfera, alternando timbri bizzarri, linee melodiche di buon gusto e solos lineari, ma dal bel feeling. Passiamo ora ai momenti meno convincenti. “I’ll never know” è un rock moderno diretto e immediato, ma anche un po’ banale, nonostante si prolunghi per oltre sette minuti, tra atmosfere vagamente floydiane e slanci chitarristici continui. “19” è il pezzo più debole, molto pasticciato, con un mixaggio alquanto strano, tra ritmi danzerecci ben in vista a coprire la voce filtrata e gli altri strumenti che si limitano ad un semplice accompagnamento. Senza infamia e senza lode “The heaviest stone”, tra rimandi ai Camel e tentazioni pop.
Alla fine, possiamo dire che “The blue star” è un disco dignitoso, che non raggiunge certo i fasti di quaranta e passa anni fa, ma che, pur tra alti e bassi, presenta qualche buona idea e contiene del materiale sonoro interessante.



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Peppe Di Spirito

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