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CROCODILE His name is Stan and he's a bad motherf**ker autoprod. 2018 USA

Quest’album dal titolo decisamente particolare è nato addirittura molto prima della band che lo ha registrato. Sul concept di Stan (non una brava persona, a quanto s’intuisce) il chitarrista e vocalist Kevin Sims ci lavora fin da quando aveva 17 anni e solo dopo 15 anni riesce infine a mettere assieme, nella sua Austin, una band che lo possa concretizzare in musica… nella musica che a lui piace, ispirata da Gentle Giant, Genesis, Jethro Tull e PFM. Nasce così quest’album, autoprodotto e uscito per ora solo su vinile e digitale, composto da 6 canzoni (più un breve interludio) che ci parlano appunto di Stan, un maniaco del lavoro e un ossessivo. Ma andiamo dunque ad ascoltare quest’album.
L’approccio musicale è molto americano: se i riferimenti che la band si dà sono senz’altro presenti, “Stan” è comunque un album sbilanciato verso un rock più diretto, hard-Prog nella gran parte dei momenti, non lontano forse da certe cose di Rundgren o degli Haken, non immune da contaminazioni del natio Texas ma con molte situazioni e riff alquanto particolari. Il cantato non è onnipresente e fortunatamente viene lasciato ampio spazio alle parti strumentali.
La brevità dell’album (40 minuti) e certe sue caratteristiche portano, di primo acchito a domandarsi se davvero tutti questi anni di preparazione siano stati ben impiegati. “Beh…? Tutto qui?” viene quasi da chiedersi sulle note di “Stan” o di “Stir the Stain”, brani ritmati e dalla fruizione apparentemente più superficiale situati nella seconda metà. Ma l’iniziale “(pre) Dawn of Stan“, che ci aveva introdotto appunto il protagonista della storia, ci aveva ben predisposti, con atmosfere da Prog nordico (ci viene in mente niente meno che Rhys Marsh) e bei suoni di tastiere. “I Was a Worker” presenta sonorità strambe e bizzarre, con la chitarra che duetta con lo xilofono e strane ritmiche mentre la successiva strumentale “Sawhorse” è più movimentata e presenta riff particolari, intrecci strumentali e cambi di tempo.
Si diceva che “Stan”, la traccia centrale dell’album, fosse più diretta e rockeggiante ed è vero (anche se non è il caso di sottovalutarla), ma la successiva (dopo il breve interludio) “Stir the Stain (F**k the Door)”, anch’essa all’apparenza piuttosto diretta, non disdegnandone le vaghe atmosfere anni ’60 e psichedeliche. Ma è con la conclusiva “I Am Stan” che il gruppo si congeda nel migliore dei modi, passando nell’arco di 7 minuti attraverso un nugolo di atmosfere e sonorità, con un brano affascinante e schizofrenico.
Quest’album ha suscitato in me sentimenti abbastanza variegati: come dicevo, il primo ascolto non ha lasciato molte tracce ma esperienze successive mi hanno fatto rivalutare anche episodi accolti superficialmente. In definitiva il giudizio è abbastanza positivo, pur senza gridare al miracolo.



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Alberto Nucci

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