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TOM DONCOURT AND MATTIAS OLSSON’S CATHEDRAL Tom Doncourt and Mattias Olsson’s Cathedral Roth Händle Recordings 2020 USA/SVE

Nel marzo del 2019, il tastierista Tom Doncourt si è spento a causa di una malattia ai polmoni. Noto agli amati del prog per la sua militanza nella band americana dei Cathdral, autori dello splendido “Stained glass stories” nel 1978 e di un ritorno nel 2007 con “The bridge”, nell’anno precedente alla sua scomparsa stava lavorando ad un nuovo disco insieme a Mattias Olsson, vero prezzemolino del prog (e non solo) degli ultimi trent’anni, visto che non si contano le sue collaborazioni, le band in cui milita o ha militato e i dischi in cui appare come produttore. I progster legano il suo nome a quello degli Anglagard, gruppo svedese che diede una ventata d’aria fresca ad inizio anni ’90 all’intera scena. Le influenze maggiori per Olsson e soci sono sempre state intraviste nei King Crimson e nei Genesis, ma proprio i Cathedral rappresentano un altro punto di riferimento importante e basta ascoltare il loro lavoro dei seventies per rendersene conto. La collaborazione tra i due musicisti ha fatto emergere un’intesa naturale ed il commovente ricordo di Mattias Olsson tra le note del booklet ne è forse la migliore testimonianza, soprattutto quando dice: “Probabilmente ascolterete questo album come un mucchio di canzoni di progressive rock, ma io lo ascolto più come un’istantanea sonora dell’amicizia che abbiamo condiviso e dell’amore e il rispetto che abbiamo avuto l’uno per l’altro, che ci hanno fatto sentire liberi e sicuri di creare, esplorare e divertirci”.
Il cd è abbastanza breve, dura poco più di trentacinque minuti e, lo diciamo subito, si avverte un lieve senso di incompiutezza. Eppure, nonostante questa sensazione, non esitiamo ad affermare che è bellissimo, che Doncourt ha lasciato un bellissimo testamento musicale e che Olsson può andare fiero di come lo ha portato a termine. Il nome Cathedral si legge sulla copertina e si avverte anche durante l’ascolto, così come inevitabili sono i rimandi agli Anglagard, ma si nota anche come i due musicisti abbiano voluto ampliare gli orizzonti ed andare a inserire soluzioni cinematiche, post-rock, classicheggianti e, in misura minore, elettroniche. La struttura dell’album vede due composizioni ad ampio respiro che viaggiano oltre i dieci minuti, accompagnate da sei brani di durata molto contenuta. Il primo minuto è affidato a “Poppy seeds intro", che è un tema delicato eseguito per l’occasione con voci a cappella e che sarà ripreso dapprima nella successiva “Poppy seeds” attraverso parti strumentali evocative ed in seguito in “Poppies in a field”. “Chamber”, parte con eleganti soluzioni acustiche della chitarra, ma, dopo un cambio di atmosfera con l’entrata drammatica del mellotron, sfocia in un heavy prog robusto che fa venire in mente i King Crimson di “Thrak”. Si arriva così a “#1”, la prima traccia di lunga durata che è l’episodio più legato al prog sinfonico, con parti altisonanti, tastiere che vanno a tutta forza ed un nuovo bellissimo tema che la caratterizza con riprese continue, quando le fughe delle tastiere e nuove spinte crimsoniane si placano un po’. Impressionanti, inoltre, il lavoro di un basso potentissimo (splendidamente suonato da Hampus Nordgren-Hemlin) e le progressioni percussive di Olsson, che sembrano uscite da un disco degli Isldurs Bane. Dopo la tempesta arriva la quiete con “Tower mews”, delicato tassello incentrato sul pianoforte e su campionature, che regala un tocco à la Anthony Phillips. C’è poi “Today”, il brano più stravagante del lotto con un sound particolare, ritmi esotici e la frase “Today I’ll go crazy” ripetuta come un mantra. La citata “Poppies in a field”, riprende subito il tema delle prime due tracce, con tastiere sinfoniche. A seguire, si va avanti, tra stravolgimenti ritmici e di atmosfera e alternanza di melodie e dissonanze, con parti vocali dal vago sapore pop, passaggi dark con echi vandergraafiani, pulsazioni ossessive del basso, soluzioni moderne tra post-rock ed elettronica e le varie riprese del leit-motiv per dodici minuti e mezzo di pura delizia. A conclusione, ecco l’apoteosi di “The last bridge organ”, finale che parte in sordina e che va in crescendo e che potrebbe fare da colonna sonora ad un film fantascientifico.
Insomma, in questo disco troviamo tanto rock sinfonico, tante tastiere, tanto mellotron, inevitabili rimandi a Cathedral, King Crimson, Änglagård e al prog degli anni ’70, un’atmosfera malinconica di fondo, la voglia di esplorare con gli strumenti utilizzati, per quello che è un affascinante affresco moderno del genere a noi caro. Ma soprattutto troviamo tante emozioni per una musica ispirata e per quello che è un tributo sincero ad un artista che, pur con poche pagine, ha lasciato un segno importante nei cuori di tanti appassionati di progressive rock.



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Peppe Di Spirito

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