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DRAHK VON TRIP Heart & consequence Transubstans Records 2005 SVE

Dubito che guardando le pagine del loro sito si riesca a non restare colpiti dalle immagini dei sei folletti di questo gruppo svedese alla loro prima uscita.
Definire la loro musica non è un passo semplice, perché molto ricca di spunti, molto personale e particolare nelle scelte. Chiari i riferimenti agli anni ’70 e a certe cose degli anni ’80, specie allo space rock degli Hawkwind, ma anche a certo dark sound inglese di provenienza new wave. Il cantato femminile di Susanne, dai toni particolarmente caldi, fornisce ai brani un’aria personalissima. Timbricamente siamo all’ascolto di una voce a metà strada tra Annie Lennox e l’immensa Annette Peacock e, pur non raggiungendo le incredibili gamme vocali delle due, l’impressione di ascolto è ottima.
Altra particolarità del disco è che la registrazione è stata fatta in presa diretta in sole due sessioni di studio. L’idea che scaturisce è quella di una forte amalgama sonora e di un grande affiatamento del gruppo. Continuando con le scelte personali e non scontate passiamo agli strumenti utilizzati. Scelte che hanno affiancato agli strumenti tradizionali oggetti particolari provenienti da varie culture e epoche come lo Yidaki, l’Udu, la Tambura, il Didjeribone o il più noto Theremin. Il sound che fluisce da queste particolarità stilistiche è anche in qualche maniera legato all’ethno rock, senza disdegnare momenti quasi tipicamente Kraut.
Dieci brani di lunghezza medio-breve per circa un’ora di musica godibile e mai ripetitiva, spesso piuttosto ritmica, ma senza scadere in temi danzerini.
Lo stampo di prog acido e spaziale è comune a tutti i brani e gli intermezzi strumentali, non troppo lunghi e dedicati ad assolo concisi ed efficaci, sono di assoluto rispetto, specie nell’opener “One of a kind” dove il cantato si trova a metà strada tra i temi Anekdoten e le colonne sonore di James Bond. “Autumn” con poco più di sette minuti è comunque il brano più lungo del lavoro e, dopo un avvio pacato e quasi cantautorale, sviluppa in un prog psichedelico nervoso e determinato.
Il CD va avanti tra avvii floydiani, strappi acidi con le chitarre e la voce in bella evidenza, momenti dark dai suoni filtrati e carichi di pathos. Alterna momenti jeffersoniani a quelli più moderni in piglio Solstice, senza disdegnare accompagnamenti jazzy come in “Long Distance Call”.
Un esordio di tutto rispetto, omogeneo e ben radicato nella tradizione del prog scandinavo, ma con una chiara occhiata all’energia rock californiano dei seventies. Un sestetto che può dire molto e che consiglio caldamente.

 

Roberto Vanali

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