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DIEZ MUNDOS Tenemos el tiempo de Plank Meeshka Records 2010 ARG

Gli argentini Gonzalo Sosa al basso e Cecilia Grammatico alla batteria ci mostrano con “Tenemos el tiempo del Plank” qual è la loro idea di sperimentazione. Coadiuvati da altri tre musicisti che intervengono solo sporadicamente con tastiere e chitarre, i due si lanciano in progressioni ritmiche bizzarre. Non cercano di sorprendere con funambolismi e giochi d’effetto; sembra piuttosto che si siano presentati in studio e, partita la session di registrazione, abbiano dato libero sfogo alla loro fantasia e ispirazione. E che si tratti di una proposta poco convenzionale lo si capisce subito: dopo una breve e curiosa introduzione, i colpi secchi e veloci di batteria che aprono “Hambre” ci fanno entrare nel vivo di un lavoro sicuramente particolare, basato su un sound scarno e non molto dinamico da un punto di vista timbrico; il basso tende sempre a dettare delle linee guida, con melodie abbastanza singolari, temi reiterati e pulsazioni ipnotiche, e l’agile batteria, tra svariati cambi di tempo, segue precisa e puntuale. In alcuni brani la presenza delle tastiere dà un ingrediente in più che rende il tutto più digeribile. In “Balle frustado”, ad esempio, pur con l’accoppiata basso-batteria sempre in evidenza, i suoni tastieristici spingono verso una direzione che ha un sapore di space-rock. Questo indirizzo è ancora più evidente in “Nacimento”, “Les 15 del 15” e in “Tormento de verano”, in cui troviamo anche chitarre acide che quando si fanno sentire fanno venire in mente gli Hawkwind o gli Ozric Tentacles in una versione semplificata. Alcuni passaggi più sperimentali eseguiti solo da Sosa e da Grammatico sembrano invece più vicini a certe soluzioni adottate dagli americani Jugalbandi, altro duo dedito ad una sorta di RIO dove ha un ruolo fondamentale l’improvvisazione. Il brano più rappresentativo è forse il conclusivo “Risas”, in cui i Diez Mundos riescono a mostrare al meglio dove lo spirito di ricerca può spingere le potenzialità dei loro strumenti, esplorando sentieri sonori che superino il concetto di “genere” musicale. Il tutto suona un po’ algido, il che alla lunga potrebbe stancare un po’, ma le idee esposte non sono male, il disco è abbastanza breve (in tutto dura meno di mezz’ora) e soprattutto il lavoro di Cecilia Grammatico dietro le pelli è molto intrigante. Forse hanno osato un po’ troppo nel puntare in maniera quasi esclusiva su strumenti solitamente relegati alla parte ritmica, però il discorso intrapreso con questo album può essere una buona base di partenza per un futuro musicale molto interessante.



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Peppe Di Spirito

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