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DHVANI Angustium Psyka Records 2019 ITA

Il trio ligure Dhvani (“suono”, in sanscrito) giunge finalmente al primo full-length, propugnando la propensione space-rock e psichedelica fin dai titoli delle prime uscite ufficiali, vale a dire l’EP “First time on this planet” e lo split con gli Spacelords, “Psychedelic battles vol. 2”. I tre continuano a portare avanti una proposta essenzialmente strumentale, che guarda a compagini già ben note come Omnia Opera, Secret Saucer e Igra Staklenih Perli. È come se attraversando l’iperspazio ci si fosse accidentalmente imbattuti in un tunnel spazio-temporale e, tra un viaggio cosmico e l’altro, ne venisse effettuato qualcuno anche a ritroso nei secoli. Il titolo, infatti, fa riferimento all’antico nome di Uscio, piccolo paesino immerso nei boschi collinari della Liguria; zona per molti impervia, ma dove i tre “cosmonauti” vivono invece benissimo, forse nascondendo la navicella tra la fitta vegetazione e andando a produrre suoni in quel loro covo ribattezzato “La Tredicesima Stanza”. Indubbiamente, questa tipologia musicale lascia molto liberi di suonare note su note, dilatando le composizioni fino all’inverosimile; il paradosso è che poi tali band rischiano di somigliarsi tutte. Per i veri amanti del genere questo non è però un problema e inoltre i tre musicisti italiani tentano di spaziare oltre i soliti stereotipi. L’iniziale “Janua” – antico nome di Genova –, per esempio, presenta delle linee soliste ad opera del chitarrista Alessio “Fuzz” Caorsi che somigliano al Joe Satriani più mediterraneo, creando così un excursus nell’attuale capoluogo ligure che fa rivivere la vivacità commerciale dei secoli passati. Anche il basso di Massimiliano Caretta si erge spesso e volentieri come strumento solista, scegliendo un approccio grave, dalle sonorità che qualcuno ha già definito “gutturali”. Va menzionato anche il batterista Leonardo Capurro, a cui tocca disciplinare l’andamento spesso irregolare degli altri due compagni di viaggio, con ritmiche ora più pacate e subito dopo maggiormente caotiche. La title-track presenta un intermezzo con i sintetizzatori che si trascina un po’ troppo a lungo, con una conclusione però assolutamente crimsoniana, mentre “FromSaturn” – dopo una intro in stile Jean-Michel Jarre” – riprende la spazialità chitarristica del primo brano (nonostante la mediterraneità su accennata). Un bel viaggio cosmico, che passa anche da un intermezzo con cui si può cambiare registro e dedicarsi ad un viaggio molto più spedito. A tal proposito, da citare c’è anche la più caotica “Materia”, la cui prima parte ricorda le introduzioni dei Djam Karet più duri, passando poi alle fasi soliste in stile primo Bevis Frond (incise per fortuna meglio…) o addirittura Terry Brooks & Strange, con un intermezzo più quieto prima della propulsione finale.
Ci sono anche due pezzi interessanti con Willie Oteri al flauto, “Sole” e la conclusiva “Theia”, entrambi legati ad aspetti astronomici. Il primo rappresenta la vera e propria contemplazione dell’astro omonimo e mette in mostra un notevole lavoro sullo strumento a fiato, specie quando deve destreggiarsi tra ritmiche che a un certo punto ricordano a loro volta i tanto citati King Crimson; il secondo, invece, si rifà alla titanide della mitologia greca, il cui nome venne sfruttato dagli astronomi per un ipotetico pianeta che si sarebbe potuto schiantare contro la Terra in un tempo immemorabile e quindi dare così origine alla Luna. Anche qui risuona la contemplazione, grazie al flauto che si muove leggero in un viaggio nel tempo che non si riesce più a quantificare e che scorre senza più fermarsi sulle note degli arpeggi della chitarra acustica. Da citare, infine “Neu!”, chiaro tributo alla band tedesca omonima, in cui va segnalato il lavoro solista del basso.
L’album si è rivelato molto piacevole; sebbene non sia quel capolavoro imprescindibile da applausi a scena aperta di cui ovviamente già si sta parlando, va sicuramente consigliato. Un esordio con dei rimandi “colti”, che fa davvero ben sperare per la produzione che verrà.



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Michele Merenda

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