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EYAL MAOZ'S EDOM Hope and destruction Tzadik 2010 ISR/USA

Eyal Maoz è un chitarrista israeliano residente negli Stati Uniti che già da diversi anni è impegnato vari progetti, che spaziano dal jazz al rock, dall’avanguardia alla musica acustica ebrea. Ci occupiamo in questa occasione del suo gruppo denominato Edom, qui al secondo cd, e portato avanti insieme a Brian Marsella (tastiere), Shanir Ezra Blumenkranz (basso) e Yuval Lion (batteria), tutti musicisti preparatissimi e con all’attivo una carriera ricca di collaborazioni. Diciamo subito che si tratta di un lavoro di sessantotto minuti, contenente dodici tracce di durata variabile ed è interamente strumentale. L’inizio dell’album, affidato a “Somewhere”, è allo stesso tempo aggressivo e maestoso, con riff duri e sonorità che evocano certo hard rock pomposo, quasi a miscelare la robustezza degli Uriah Heep con i Rush più tecnologici. Dalla seconda traccia “Tsi” i musicisti si lasciano maggiormente andare ed inizia un tour de force di equilibrismi e velocità, mai eccessivi e che mettono maggiormente in mostra la caratura tecnica dei musicisti. Chitarra e tastiere cominciano le loro contorsioni tra intrecci e solos spediti, accompagnate alla perfezione dai colpi e dalle pulsazioni di basso e batteria, creando una sorta di heavy-fusion in cui si possono intravedere elementi zorniani, l’influenza di maestri della chitarra quali Satriani e Vai, la ricerca di un rock senza confini e quasi zappiano ed anche un flavour mediorientale, con Maoz pronto ad inserire particolari melodie che derivano dalla tradizione della sua terra d’origine. Ci sono anche alcuni episodi un po’ più particolari, come “Slight Sun” e “Eagle”, dove, pur non perdendo queste caratteristiche di base appena descritte, si punta su soluzioni e timbri vicini a certa new-wave, riproposta in chiave moderna e contaminata. In generale l’impressione è che i momenti maggiormente convincenti siano quelli più altisonanti e granitici, mentre non sempre gli Edom riescono a coinvolgere in pieno quando puntano su composizioni spedite e giocate su andature convulse. In questi casi, infatti, nonostante si mantengano sempre lontanissimi dai livelli di giapponesi quali Ruins e Gerard, tanto per citare due esempi che in maniera diversa fanno della frenesia uno dei loro marchi di fabbrica più importanti, gli Edon sembrano perdere quel feeling che certi passaggi solenni o certe atmosfere più bizzarre riescono meglio a comunicare. Pur non privo di ombre, “Hope and destruction” sa comunque a trasmettere una proposta interessante da parte di musicisti molto dotati e sembra destinato soprattutto agli amanti degli equilibrismi strumentali.


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Peppe Di Spirito

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