Home
 
EXHIBIT A Make mine a lobster autoprod. 2010 UK

Sinceramente avevamo ormai perso le tracce di questa band proveniente dalla contea dell’Essex, attiva fin dal 1986 e il cui parto più recente risale a ben sedici anni orsono, l’album intitolato “Out there”, che seguiva una raccolta pubblicata solo su audiocassetta, in tempi romantici in cui le fanzine fotocopiate “dominavano” le letture del progster… Bando alla nostalgia, il quintetto fondato da Steve Watts (basso) e Nick Hampson (chitarra) decide tre anni fa di uscire da una lunga fase di quiescenza e registrare (senza affrettarsi troppo, come ammesso dagli stessi protagonisti!) i nuovi brani nati negli anni intercorsi, radunando la stessa line-up temporaneamente “congelata” a metà degli anni ’90 che già vedeva la nuova recluta Paul Caswell alle percussioni.
Dopo aver inserito il dischetto nel lettore, un sorriso di condiscendenza spunta nel ritrovare immediatamente, già dalla trascinante apertura “Touch the stars”, un’attitudine che credevamo relegata al ricordo di tante band “minori” del sottobosco new-prog inglese degli anni ’80: Haze, Final Conflict, Multi-Story… insomma, un songwriting immediato e accattivante, un po’ naïf e tendente al pop-rock più mainstream, ma perfettamente apprezzabile - magari come seduta defaticante per alleggerire un po’ i toni e rinfrancare le orecchie provate da improbabili tempi dispari – anche dall’ascoltatore prog medio, meglio se memore del pionieristico periodo in cui volti dipinti e sofisticate acconciature alla moda erano di casa al Marquee di Wardour Street.
Il suono degli Exhibit A è basato sui toni morbidi della piacevole voce di Dave Foss, sui ricami delle tastiere di suo fratello Neil, raramente protagoniste di flash strumentali, ma generalmente in supporto di una chitarra molto presente e si esprime in brani piuttosto brevi dalla struttura canzone “tradizionale”. L’onesta tecnica strumentale è al servizio della melodia, come accadeva in alcuni brani degli IQ del periodo Menel, nei Pallas di The Wedge o addirittura nei manifesti AOR degli Asia o dei canadesi Saga, da cui si differenzia per via di un sapore più tipicamente inglese e meno “radiofonico” che evita accuratamente i cliché più triti. Ne risulta un ascolto non impegnativo ma che permette di apprezzare un certo dinamismo in brani uptempo come “Carousel”, una sincera emozionalità in episodi meno immediati come “First to last” e “Wake up to reality” (che portano alla mente realtà britanniche contemporanee come Credo o Also Eden) e l’ammirazione per i Rush nelle evoluzioni ritmiche di (non a caso)… “Rush of blood”. La durata contenuta del disco, insolita per questi tempi, contribuisce a rendere l’ascolto continuativo un’esperienza molto gradevole.
Ponetevi senza pregiudizi di fronte a quest’album, non giudicate i brani per la loro durata o per la loro complessità, restereste delusi; non accusate la band di suonare “datata”, perché eventuali anacronismi sono segno di coerenza di chi 25 anni fa ha fatto parte – sia pure con un ruolo marginale – di una scena caratterizzata da creatività ingenua ma incisiva; semplicemente, in una scena nel suo piccolo dominata da proposte “modaiole”, date una possibilità a chi invece porta avanti il proprio discorso musicale senza scoraggiarsi di fronte a riscontri commerciali irrisori… potrebbe essere l’ultima.



Bookmark and Share

 

Mauro Ranchicchio

Italian
English