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FLIGHT 09 Human nature Mals 2004 UZB

L’Uzbekistan, come anche tutte le altre repubbliche ex-sovietiche, madre Russia inclusa, non è uno stato particolarmente foriero di band di rock progressivo (non conosco invece la situazione per la scena rock tout-court), fa quindi piacere notare l’esistenza di una band dal curriculum consolidato come i Flight 09. Questo “Human nature” è infatti il terzo album edito su CD e distribuito sul mercato internazionale, ma le origini del gruppo risalgono addirittura al 1986; la partecipazione a numerosi festival (sempre negli stati della CSI) e la produzione di una manciata di lavori editi su cassetta già dai primi anni ’90 ne arricchiscono le referenze.
A dire il vero la presentazione che si può leggere sul loro sito web è un po’ sibillina, parlando prima di cathedral rock (sic) ma poi di “recente ritorno alle radici hard-rock e proto-progressive a causa della scarsa popolarità del prog-metal nella loro città d’origine, Tashkent…” e questa affermazione troverà in effetti riscontro tra le note dell’album.
Abbiamo a che fare con un trio (Igor Savitch, voce, chitarra, tastiere; Constantine Savitch, basso; Artiom Piyanzin, batteria, sostituito da Vlad Nemtinov dopo l’uscita del disco) capace di produrre un rock piuttosto grezzo per poter essere descritto come sinfonico e troppo semplicistico per competere con le proposte metal-prog, non tanto per la durezza del suono quanto per la schematicità dei brani che almeno ad un primo ascolto paiono non lasciare molte tracce nella memoria dell’ascoltatore.
Pesanti riff chitarristici, rifiniture di tastiere dal timbro di archi sintetizzati ed una voce dalla tonalità bassa e roca; gli assoli sono rari e limitati alle sei corde (ma quando accade non sono affatto disprezzabili, come nell’apertura “Eternal disgrace” che con i suoi arabeschi riecheggia “Kashmir” dei Led Zeppelin), una certa tendenza a introdurre temi orientaleggianti è forse direttamente riconducibile all’origine geografica della band, che pure si ispira a modelli prettamente occidentali, a cominciare dalla lingua di espressione.
La parte centrale dell’album ne risolleva un po’ le sorti (“My dream” e l’epica “The crow”, di gran lunga la migliore del lotto) finendo chissà come per suonare vagamente new-prog, come una sorta di Aragon o Chandelier incattiviti.
Quando si tenta la carta della ballata orchestrale o acustica (rispettivamente “Dancers in the night” e “When the sleeper wakes up”) invece, il risultato suona troppo artefatto e non convince, soprattutto a causa dell’interpretazione un po’ forzata, ed in brani simili sono solo alcuni sporadici fraseggi puliti di chitarra che strappano qualche consenso.
Non fa piacere essere critici quando si tratta di dare un giudizio su chi rappresenta e tiene viva la fiamma del prog dove la tradizione in tal senso è quasi totalmente assente; non sarei onesto però se negassi la mediocrità di “Human nature” nel suo complesso.

 

Mauro Ranchicchio

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