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FERMATA Fermáta / Piesen z hôl' Opus 1975/1976 (Opus 2009) SLK

I Fermáta si formano nell’ex Cecoslovacchia nel 1973 grazie all’incontro tra il chitarrista František Griglák (giŕ attivo con i Prudy nel ’70 e soprattutto con i Collegium Musicum a partire dal ’71) ed il tastierista Thomas Berka. A loro si uně la sezione ritmica formata dal bassista Anton Jaro e dal batterista Peter Szapu. Autore di un jazz-rock che, nonostante guardasse ad evidenti riferimenti come i Mahavishnu Orchestra, mostrava comunque una sua precisa identitŕ, il gruppo – geograficamente slovacco, oggi – diede vita ad una discografia quasi interamente strumentale. Forse sarŕ stato anche per questo che il regime comunista di allora tollerň la proposta del quartetto; gli album, tanto per non sbagliare, furono pubblicati sull’etichetta nazionale Opus. I primi due vennero in un primo momento ristampati su un unico cd nel 1997 dalla Bonton, ma con la gravissima esclusione di “Perpetuum III” presente in origine sul primo omonimo, oltre al fatto che le note di copertina erano solo in lingua madre; nel 2009 proprio la Opus ristampa tutti gli album, re-masterizzandoli e pubblicandoli di volta in volta in confezioni doppie: i primi due, il terzo ed il quarto, ecc…
Senza Mellotron e Moog, che avrebbero potuto creare problemi con il regime di cui sopra, i Fermáta esordiscono nel 1975 con un lavoro auto intitolato, avendo comunque a disposizione parecchie tastiere e strumentazioni di marche occidentali. L’iniziale “Rumunská rapsódia” č un riadattamento ad opera di Griglák della rapsodia omonima del compositore rumeno George Enescu, in uno stile che come detto deve molto all’ensemble mistico di John McLaughlin, in cui militava anche il loro famoso connazionale Jan Hammer, tastierista che ha senza dubbio influenzato Berka. Un’interpretazione diretta, che attacca frontalmente senza timori reverenziali, mostrando fin da subito una propensione piů melodica dei loro modelli, anche se forse il livello tecnico č leggermente inferiore (rimanendo comunque parecchio alto). In “Perpetuum II” ad un certo punto spuntano pure i primi Deep Purple, mentre “Postavím si vodu na čaj” ha un lungo inizio quasi ipnotico per poi ribadire ciň che realmente questo č: un autentico guitar-album da sentirsi prima tutto d’un fiato e poi da riascoltare per coglierne i vari passaggi. “Valčík pre krstnú mamu” potrebbe essere una jam tra la giovane band di Blackmore e McLauglin, con un intermezzo quieto a la Carlos Santana “maggiormente astratto”, finendo con gli undici minuti di “Perpetuum III”, in cui i Fermáta danno il meglio di sé, suggellando nel migliore dei modi un album eccellente.
L’anno seguente esce “Piesen z hôl'”, dove si registra l’ingresso del nuovo batterista Cyril Zeleňák e del violinista Milan Tedla, assieme all’intenzione di apportare maggior colore ad un sound che a detta dei diretti interessati suonava troppo sobrio. La title-track sembra continuare ciň che era stato interrotto nel lavoro precedente: altri undici minuti di grande flusso musicale in cui viene sfruttata l’agilitŕ di Zeleňák, spostando lo sguardo proprio verso quel Santana piů spirituale ma che ancora non aveva rinunciato all’espressione virtuosistica, mettendo in luce un chitarrismo dal groove assai intenso. “Svadba na medvedej lúke” sembra un intermezzo piů quieto sempre di matrice Mahavishnu, con il basso di Jaro in grande spolvero sullo stile del collega Rik Laird, continuando con la successiva “Posledný jarmok v Radvani”, in cui tutti gli strumenti portano ad un jazz-rock che appare differente, piů easy, ma non per questo scritto con meno competenza (pare che tutte le loro partiture fossero riportate su pentagramma…). Differenze che si notano anche in “Priadky”, dove magari si č piů vicini ai Return to Forever con Billy Connors, o nei due minuti di “Dolu váhom”, decisamente differenti come rotta. Tutto questo sfocia nei dieci minuti finali di “Vo Zvolene zvony zvonia”, in cui finalmente si sente il violino (solo una comparsa, quindi) e ci si addentra nel folk slovacco amalgamato col jazz, divenendo una fusion a tutti gli effetti.
Alla fine del viaggio, ci si accorge di aver terminato con qualcosa che gradatamente č diventato differente da quanto si era ascoltato all’inizio. E a volerci ripensare, un altro dei difetti dell’edizione Bonton era l’aver messo l’uno accanto all’altro pezzi differenti tra loro che nell’ascoltatore potevano lasciare la sensazione di una band che con la propria musica aveva lasciato le cose a metŕ, senza essere riuscita a caratterizzare il contenuto di quanto proposto. Nulla di piů sbagliato. Ben venga la riedizione della Opus quindi, in cui i due dischetti sono tenuti distinti e separati, ognuno con una storia a sé che potrete leggere nelle note all’interno del booklet, assieme alle traduzioni in inglese dei titoli slovacchi dei brani. Per quanto riguarda ciň che puň piacere maggiormente nell’uno o nell’altro, č come sempre qualcosa di estremamente soggettivo.
Di oggettivo rimane il valore dei Fermáta, che č di tutto rispetto e che non deluderŕ gli amanti del jazz-rock di metŕ Seventies.


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Michele Merenda

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