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FUNGUS The face of evil Blood Rock Records 2013 ITA

I genovesi Fungus tornano sul mercato discografico tre anni dopo “Better than Jesus”, secondo lavoro (provocatorio fin dal titolo) che li aveva posti in maniera concreta all’attenzione degli amanti della psichedelia di fine Sixties, sicuramente debitrice dei Pink Floyd che operavano durante il medesimo periodo musicale (differenti da come poi li ha conosciuti il grande pubblico). La band di Carlo “Zerothehero” Barreca e Alejandro J. Blissett si ripropone assai maturata, con coordinate che vanno finalmente a parare verso qualcosa di concreto, andando al di là delle “semplici” belle promesse; pubblicando la propria terza release per la Blood Rock Records, distribuita a sua volta da un marchio come quello della Black Widow (anch’essa di Genova, guarda caso), è chiara la decisione del quintetto di portare avanti idee che risultino compatte e coerenti, indipendentemente dal risultato finale. Uno scenario che risulta ben delineato fin dalla copertina di Jessica Rassi che riporta ad altri tempi e a sua volta fin troppo simile a “Pictures in a dream” dei norvegesi Arabs in Aspic, uscito lo stesso anno e – guarda ancora la casualità – proprio per la Black Widow Records.
Un rock psichedelico e difficile da definire, che un po’ spiazza nell’iniziale title-track: un gruppo maturo, migliorato, soprattutto la voce di Dorian Deminstrel che va oltre il semplice impatto scenografico, ma che appare ermetico nelle sue scelte stilistiche. Qualcosa cambia già in “Gentle season”, con un assolo chitarristico di Blissett che anche grazie ai suoni vintage appare gradualmente svilupparsi come qualcosa di meraviglioso, ma che inspiegabilmente va a sfumare di colpo. Ci si augura che almeno dal vivo le sei corde saranno libere di esprimersi.
La bella “The great deceit” lascia presto il posto ai quasi sette minuti di “Rain”, un dramma esistenziale degno davvero dei vecchi Floyd, con chitarra e pianoforte che sottolineano i punti salienti intervallati poi da dei controtempi.
“The key of the garden” si sviluppa alla fine come un tema festoso, nonostante l’inizio sembrasse preludere tutto il contrario, mentre “Share your suicide III” è pervaso da un’atmosfera psichedelica dura grazie all’uso del Theremin (altra analogia con gli Arabs in Aspic), scatenandosi poi in una lava di sintetizzatori. “Angel with no pain” sembrerebbe una versione lisergicamente intricata degli Spiritual Beggars del periodo in cui c’era JB dei Grand Magus alla voce, con la solita chitarra ficcante di Blissett, il lavoro di batteria vario e robusto di Caio ed i fondamentali riempimenti tastieristici di Claudio Ferreri. La continuità col passato è garantita con un brano che si intitola proprio “Better than Jesus”, dove non si può negare che ci sia della melodia, ma quest’ultima sembra sfuggire comunque alle regole del facile ascolto e del ritornello semplice, lasciando il commento finale alla chitarra che ha la strada aperta dagli altri strumenti.
“Requiem” ha un inizio che potrebbe essere definito da… western crimsoniano, tema che ritorna spesso con delle strofe epiche dopo alcune interruzioni da ingenuità bucolica (sempre “alterata”, però), ma è la conclusiva “The sun” che sembra volersi lasciare andare alla musica da epopea esistenzialista. Il basso fa sentire la sua dura presenza tra gli spunti evocativi della chitarra e le parti cantate in modo più teatrale del solito, il rullare dei tamburi e lo scorrere di tastiere varie. Il flauto di Barreca, poi, fa da momentaneo intervallo col finale che a tratti riporta piuttosto ai primi Seventies. Un paio di minuti di silenzio e si arriva alla ghost track, poco meno di un minuto di suoni dissonanti.
Questo terzo lavoro, quello che spesso rappresenta la maturità artistica, non è affatto facile. La musica sembra seguire più che mai l’inesorabilità dei testi, andando di pari passo e sottolineando l’un con l’altro quelli che sono i rispettivi passaggi che vanno ascoltati senza fretta. Forse anche questo consiste in un ritorno ad un passato che sembra tanto, troppo lontano per chi invece corre tanto. Non di certo un capolavoro, ma sicuramente un’uscita da sentire per scoprire sempre nuove sfumature.


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Michele Merenda

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