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FERONIA Anima era Andromeda Relix 2017 ITA

Vista la copertina, qualcuno potrebbe dire che qui c’è odore di rituale satanico. Al meglio, ci si potrebbe augurare che si tratti di uno dei tanti gruppi adoratori del nero Verbo sabbathiano. Apprendendo poi che i quattro vengono da Torino, ecco che i più superficiali sarebbero ben felici di generalizzare e parlare di messe nere. Le cose non stanno in realtà così. Sicuramente si tratta di heavy metal e non di prog (ci si metta tutti l’anima in pace, anche i promotori stessi), ma fortunatamente non c’è traccia di quel metal pacchiano anni ’80, le cui produzioni oggi suonerebbero assolutamente ridicole; la band piemontese apre il proprio sentiero mettendo in testa la cantante Elena Lippe, dalla presenza imponente, che con la sua figura incarna la dea italica rappresentata nella copertina di cui sopra, i cui elementi legati alla natura e agli animali sono stati sfruttati ad arte durante i secoli per strambe rappresentazioni demoniache, capaci purtroppo di entrare nell’immaginario collettivo mondiale. Musicalmente parlando, qui abbiamo una timbrica molto densa e corposa, dovuta soprattutto alla chitarra a sette corde di Fabio Rossin che presenta un’accordatura più bassa rispetto al solito. Anche le tematiche sono molto impegnate (spesso in una maniera che definire polemica sa di eufemismo), rivolte proprio alla preservazione della natura stessa.
Dea onorata sia dai Romani che dai Sabini, Feronia proteggeva i boschi e le messi, adorata tanto dai malati quanto dagli schiavi riusciti a conquistarsi la libertà. Una figura che quindi si presta bene ad una musica potente, forse anche troppo soverchiante, che accusa esplicitamente le visioni religiose patriarcali d’aver contribuito ad avviare l’Esistenza verso la distruzione e che quindi spinge a ribellarsi. Questa dea, inoltre, è stata identificata anche con una figura ancora più antica, vale a dire la regina etrusca degli inferi Cavatha (ed ecco i simbolismi di cui sopra). Ciò che spicca in pezzi iniziali come “Priestess of the Ancient New” e soprattutto “Atropos” è la padronanza chitarristica di Rossin, il quale si produce in acrobazie virtuosistiche davvero degne di nota. Sembra che però arrivino un po’ troppo tardi e che quindi occorra accorciare leggermente la durata dei brani per renderli meno stancanti. La sezione ritmica formata da Daniele Giorgini (basso, a tratti imponente) e Fabrizio Signorino (batteria) pesta bene e viaggia spedita come un treno, mentre la voce della Lippe risuona discretamente arrabbiata e se fosse capitato il contrario sarebbe stato davvero fuori luogo. Qui per fortuna non abbiamo una voce femminile eterea che fa tanto “gotico-romantico scandinavo”, anche se a volte non vi sono quelle sfumature vocali che darebbero più colore alle canzoni. Ci potrebbe essere qualcosa dei primi Queensryche, però resi decisamente più aggressivi, e a proposito di ritmica c’è da seguire quella di “Wounded Healer” e di “Garden of Sweet Delights”, dove è lo stesso Rossin a fare faville. Occorre poi prestare attenzione ad un trittico di canzoni che appaiono legate l’una con l’altra: “Humanist” – tra strofe dure e cori melodici – suona come già sentita in questi ambiti ma allo stesso tempo presenta una dura denuncia socio-religiosa, tra parole messe accanto come humanist, anarchist, femminist e atheist; la melodia aumenta con “Free Flight”, dove ci si professa orgogliosi di essere ribelli, e si arriva alla semi-ballad “Innocence”. In quest’ultima la cantante gioca un po’ troppo a fare la seducente, in contrasto immediato con la durezza della successiva “Depths of Self Destruction”. I pezzi conclusivi sono effettivamente votati ad un graduale ulteriore indurimento del sound, tipo addirittura il nu-metal di “Thumbs Up!” (con un intermezzo però fusion, oltre alle citazioni di Bukowski) e la finale “A New Life” (da sentire comunque l’ennesimo assolo su “Exile”).
Che si tratti di heavy metal già lo si è detto, forse con qualche attorcigliato controtempo in stile primissimi Dream Theater; se ciò può bastare a definire quanto proposto almeno prog-metal, ognuno è libero di fare come più gli aggrada. Sicuramente è un esordio suonato con grande professionalità e prodotto bene, appositamente “saturo” nei suoni. Su una pagina metal, se ne parlerebbe come di un gran debutto. Parlando in generale, invece, si può dire che si avverte nei pezzi una certe ripetitività. Le coordinate sono state tracciare, sta adesso all’ascoltatore esaltarsi, rimanere razionale oppure declinare l’invito.



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Michele Merenda

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