Home
 
GALADRIEL Calibrated collision course Musea 2008 SPA

I Galadriel sono una band dalla storia lunga ma segnata da lunghe tappe (caratterizzate da radicali rimescolamenti di formazione) che hanno portato a distanziare la pubblicazione degli album di parecchi anni, ciò nonostante si tratta di una delle formazioni più longeve e rispettate del progressive spagnolo ed il suo tortuoso e travagliato percorso, che li ha condotti al quarto album in 20 anni di esistenza, merita certamente una breve ricapitolazione.
Ascoltare oggi quel gioiellino appena sciupato da una produzione un po’ approssimativa ma strabordante di entusiasmo sinfonico, intitolato “Muttered promises from an ageless pond” (1988), figlio delle sognanti trame acustiche di stampo “Trespass” e della gioiosa solarità strumentale dei miglior Yes, e confrontarlo con quest’ultima opera, si stenta a credere che si tratti della stessa band. In effetti così non è: già nel 1992, con il secondo “Chasing the Dragonfly” (che considero l’album della maturità e il loro vertice artistico) apparve chiaro quanto il marchio Galadriel fosse il legittimo veicolo della creatività del vocalist e compositore Jesús Filardi, filo conduttore di quattro formazioni omonime ma totalmente diverse non solo in quanto a personale ma anche come attitudine musicale.
Ciò che ascoltiamo oggi in “Calibrated collision course” è piuttosto accomunabile al precedente “Mindscapers” (risalente a ben 12 anni orsono), anch’esso partorito da Jesús in collaborazione con il bassista José Bautista, che stavolta viene accreditato come autore principale delle musiche: una proposta assai più moderna come impostazioni e timbriche (dov’è il pianoforte liquido che dominava i primi lavori?), che si scrolla di dosso il manierismo che pure portò agli splendidi risultati degli esordi, ma a mio avviso carente in quanto ad emozionalità, ed è un vero peccato soprattutto quando il microfono è nelle mani di un vocalist dalle potenzialità espressive chiaramente sopra la media, qual è Filardi.
Mi spiego meglio: i brani risultano frammentari tanto da far perdere il filo con estrema facilità e lasciare un segno appena tangibile, danneggiati dall’inserimento pedante di sezioni “recitate” od effetti sonori comunque alieni allo svolgimento melodico, impedendo loro di raggiungere la compiutezza che ci si aspetterebbe; potrei fare un paragone con il contraddittorio “marillion.com” della band di Steve Hogarth o addirittura con la produzione di “Amarok” da parte di Mike Oldfield, un album che avrebbe potuto sfiorare la genialità di “Tubular Bells” ma fu sfigurato irrimediabilmente da “sgradite sorprese” sonore, ostacoli piazzati ad arte che ne minavano la fluidità.
Si salvano da queste critiche un brano come “Leap of faith”, che pur gradevole vira però verso lidi pop strizzando l’occhio ai Beach Boys e in parte la conclusiva “Consumer satisfaction”, dallo svolgimento melodico un po’ più intelligibile. Se poi in passato la scelta della lunga durata conduceva ad esiti magnifici come le epiche “The Grey Stones of Escalia” e “Landhal’s Cross”, oggi i 20 minuti di “As big as bang”, nonostante alcune rare oasi felici tastieristiche, cortesia del bravo Santi Pérez, finiscono purtroppo per mettere alla prova la nostra pazienza.
Istintivamente, verrebbe da imputare questo difetto anche alla verbosità e la spigolosità delle liriche in inglese, sapendo che i brani nascono nella più musicale lingua castigliana e successivamente tradotti ed adattati: eppure ciò succedeva anche in passato ed i risultati erano inizialmente egregi.
In altre parole, mi sarebbe piaciuto che i Galadriel – band dalle attitudini non certo sperimentali - si fossero attenuti a ciò che hanno dimostrato in passato di saper fare meglio: la direzione presa non mi pare conduca in luoghi di particolare interesse sonoro, e per quanto possa essere encomiabile il tentativo di deviare da strade troppo battute dal rock progressivo si era già giunti a risultati ottimi in questo senso con il secondo album, infarcito di influenze etniche (la chitarra flamenco, gli strumenti orientali), soluzioni ritmiche raffinate e arrangiamenti ricchi e maturi, tali da suscitare un apprezzamento unanime da arte della comunità prog, al tempo della rinascita degli anni ’90.
E dire che gli ospiti illustri non mancano: gli arrangiamenti vocali sono affidati ad Andy Sears, vocalist dei Twelfth Night (il cui gusto per il… “dettaglio pazzoide” – tanto perché la sua presenza stimola il paragone - era tutt’altra cosa), il chitarrista Jean Pascal Boffo, veterano della scena francese che contribuì a fare la storia dell’etichetta Musea, qui responsabile di qualche sparuto tocco fusion, nonché Miguel Afonso, fisarmonicista canario di estrazione folk.
Dispiace e non poco dover lesinare gli elogi verso una band che a suo tempo, con brani come “Senshi”, “Alveo” o “Lágada” contribuì non poco ad accrescere la mia curiosità verso la scena progressiva europea, ma devo constatare che la magia onirica sprigionata da quei solchi è pressoché assente da questo nuovo disco e la lunga gestazione (2004-2007) non è che un’aggravante. Procuratevi in tutta fretta i primi due album dei Galadriel, piccoli capolavori sempre editi dalla Musea, è un consiglio spassionato: ne vale davvero la pena; il presente della band, mi duole ripeterlo, non incontra il mio gusto, ma potrebbe (attenzione al condizionale!) fare al caso vostro se a suo tempo salutaste con favore la svolta modernista di “Mindscapers”.


Bookmark and Share
 

Mauro Ranchicchio

Collegamenti ad altre recensioni

GALADRIEL Chasing the dragonfly 1992 
GALADRIEL Mindscapers 1997 

Italian
English