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GHIRIBIZZI Circuit rewiring autoprod. 2010 BEL

Dopo un significativo rimescolamento delle carte, tornano a dare notizie di sé i paladini nel “new progressive” belga, alla terza produzione discografica e a ben cinque anni dall’apprezzato “Pan’ta Rhi”. Molta acqua è passata sotto i ponti e ciò ha comportato la defezione del chitarrista Dario Frodo in favore di Laurens Gardeniers, del tastierista Pete Mush e del bassista Little John sostituito da Krid Yrus: l’adozione da parte della band di fantasiosi nomi d’arte potrebbe indurmi in errore, ma i capisaldi restano il cantante, tastierista e autore di tutti i brani Frank Centauri, coadiuvato dai synth del fedele Yves Simmah. Il genere suonato è facilmente riassumibile come una variazione sulla gettonatissima ricetta che fece la fortuna dei Marillion, resa interessante da interpretazioni vocali sentite e personali, a volte un po’ eccentriche e dalla scelta di basarsi sulla tipica struttura-canzone (con un paio di eccezioni che vedremo), una formula che i Ghiribizzi sono molto bravi ad applicare. Ci si potrebbe azzardare ad affermare che i nostri abbiano assimilato la lezione dei connazionali Machiavel, anche loro padroni del dono della sintesi e della melodia insolita.
Si da inizio alle danze con la title-track: “Circuit rewriting” è un’autentica festa marillioniana: chiudendo gli occhi si riesce a vedere il giovane Fish con tanto di fascetta sulla fronte gigioneggiare sul palco negli anni ’80, mentre il successivo “Thru different eyes” è un brano più riflessivo, dalla melodia semplice ma contagiosa e la voce piacevole di Frank a cullarci con il supporto di cori femminili. Numerosi altri brani, come “Remains the same” e “Steam” con la loro ritmica sostenuta e le parti vocali aggressive di Centauri restano in territorio classico da new-prog inglese (vengono in mente Abel Ganz e Final Conflict): abbiamo sempre a che fare con costruzioni del tipo strofa/ritornello, avare di assoli propriamente detti, che non sarebbero nulla di speciale se solo non finissero per imprimersi bene in testa per la loro semplicità disarmante!
Restano da segnalare “Chemistry”, che con la sua ritmica vagamente calypso è un episodio leggerino e divertente che si sviluppa arricchendo progressivamente il tessuto strumentale e “Lost in thought” che ha la particolarità di utilizzare per le liriche un collage di locuzioni e bizzarri modi di dire propri della lingua inglese, mettendone in evidenza il carattere a volte un po’ ridicolo.
Cosa dire di “Kashira’s ride”? Il titolo epico suggerisce un rinfrancante cambio di umore a metà disco ed infatti l’intro atmosferica lascia presto spazio ad un brano dai contorni piuttosto duri, con una ritmica improvvisamente vitaminizzata, per poi lasciarsi andare ad aperture liquide affidate alla chitarra di Gardeniers finalmente protagonista: forse il brano più vario e tipicamente prog del lotto. “Banyan tree” è una dolce parentesi semiacustica in cui le tracce di chitarra elettrica sovraincise evocano le partiture del migliore Brian May.
Si chiude con l’ispirata ed emozionale “Descent of the dyad” e con la consapevolezza di aver a che fare con un disco certamente non “ruffiano”, la cui semplicità di fondo costituisce le fondamenta su cui si basano i singoli brani che paradossalmente si riveleranno invece parecchio più complessi dopo ascolti successivi. Consigliato se come il sottoscritto riuscite ancora ad apprezzare un genere spesso bistrattato e che ci ostiniamo a chiamare “nuovo” malgrado abbia quasi trenta anni di età!


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Mauro Ranchicchio

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