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GÖSTA BERLINGS SAGA Sersophane Icosahedron Music 2016 SVE

Immaginate che il dipinto che tanto amate perda tutti i suoi colori, che i dettagli vengano meno, le figure sbiadiscano, non importa che si tratti di un’opera dalle tinte notturne o che raffiguri un paesaggio spettrale, anche in questo caso vernici e sensazioni si disperderebbero. Questo è lo scenario che si è concretizzato nella mia mente ascoltando questo nuovo e quarto album dei Gösta Berlings Saga. Il quartetto di base è sempre quello, almeno da sette anni a questa parte, ma rispetto al precedente e a me graditissimo “Glue Works” tutti gli ospiti sono andati via. Non voglio dire che la differenza la facciano proprio gli ospiti ma la mancanza di strumenti addizionali sicuramente rientra in quel processo di decolorazione prima descritto. Le dinamiche creative del gruppo sono senza dubbio simili a quanto già proposto in passato, nell’arco di tre album tutti validi, ma a mio avviso rispetto al precedente e già citato disco, che immaginavo invece come un potente trampolino di lancio, è stato fatto forse un piccolo passo indietro. Niente di nefasto se guardiamo la cosa in termini assoluti e non vorrei che questo paragone col passato renda il prodotto meno interessante ai vostri occhi: il gruppo non merita sicuramente di essere trattato con sufficienza. Ed allora eccoli lì quei loop ossessivi, quelle melodie introspettive, i sapori vintage, le nuance folk molto diluite, tutte concentrate in sei nuove tracce strumentali per una durata complessiva di appena 39 minuti.
Lo sforzo più significativo, a mio giudizio, non è però rappresentato dal brano più lungo: “Channeling the Sixth Extinction”, con i suoi quindici minuti e oltre, incede in modo sinistro, come una marcia ineluttabile, muovendosi sui passi frammentati della batteria (brillantemente suonata da Alexander Skepp) lungo scenari che man mano si dischiudono alle nostre orecchie. Le chitarre di Einar Baldursson sono distorte e pesanti, indaffarate ed indefinite nel loro girovagare, mentre le tastiere di David Lundberg, quando ci sono, appaiono distanti e caliginose con un effetto finale di sovrapposizione e confusione dei suoni. La musica si avvita via via in una specie di spirale in cui giocano molto le ripetizioni, i flussi continui di suoni, il ripresentarsi di suggestioni simili ed i loop ininterrotti come un meccanismo inceppato. La lunghezza del brano non corrisponde ad una ricchezza di contenuti quanto all’esigenza di sviluppare fino in fondo certe ambientazioni, certe sensazioni espandendo al massimo ogni idea.
Molto più allettante per me si presenta “Fort Europa”, di soli 8 minuti. La chitarra si porta lentamente al centro della scena accompagnata dal piano gelido, gli arpeggi disegnano una melodia sinistra dalle sfumature folk e dagli intrecci sempre più complessi. La batteria gioca un ruolo interessante mantenendo agitate le acque torbide di questo sound paludoso. Ancora suggestioni folk compaiono nel breve pezzo di apertura di neanche 3 minuti ed intitolato “Konstruktion”. La chitarra delinea la melodia principale che ricorda qualcosa di nordico e tradizionale con un piglio distorto ed offuscato che si muove su una ritmica cavalcante tagliata da incursioni elettriche.
La title track, anche qui vengono raggiunti gli 8 minuti, è invece più introspettiva e misteriosa, almeno in apertura, con un filo di suspense che prelude però a soluzioni più burrascose con suoni che iniziano a rotolare accrescendo progressivamente la loro massa. Il basso di Gabriel Tapper si rivela un sostegno essenziale in questo tipo di impalcature sonore. La musica ritrova comunque, col giusto passo, il logico filo conduttore della melodia, creando scenari da film. Vedete come il gruppo riesca sempre a dare risalto a certe sensazioni, a farle crescere, approfittando delle variazioni del ritmo, delle ripetizioni, modulando con sapienza l’intensità di esecuzione. “Dekonstruktion” cresce lentamente su un ripetitivo loop elettronico lungo il quale si struttura pian piano una melodia, quasi a voler agganciare sulla propria lunghezza d’onda il pensiero di chi ascolta per poi trascinarlo via con sé. In questo insieme musicale appare quasi come un’appendice a sé stante la brevissima e conclusiva “Naturum”, imbastita da una limpida chitarra arpeggiata che ha quasi l’effetto di rinfrescare e ripulire la mente e le orecchie provate da questo viaggio musicale oscuro e non sempre lineare.
Nel suo insieme l’album appare, come avrete intuito, abbastanza essenziale seppure di non semplice lettura, spesso dominato da suoni rinsecchiti e claustrofobici. E’ tetro, ossessivo, straniante e ruvido. I riferimenti stilistici che possiamo invocare non sono molto diversi rispetto a quanto già conoscevamo, con elementi sparsi che ci rimandano a VdGG, King Crimson ma anche Anna Själv Tredje, Träd Gräs Och Stenar, Kebnekaise e Bo Hansson. Un mix affascinante e particolare, senza dubbio, che vale la pena sperimentare nonostante qualche piccolo appunto.



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Jessica Attene

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