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GOAD Landor Black Widow Records 2018 ITA

Come annunciato dal leader Maurilio Rossi in sede di intervista ai tempi del precedente “The silent moonchild” (2015), la dark-prog band fiorentina dà alle stampe il concept sull’autore inglese Walter Savage Landor, vissuto tra il XVIII ed il XIX secolo e morto proprio a Firenze. Sepolto nel cosiddetto “Cimitero degli Inglesi” – edificato all’epoca da una società che rappresentava la Chiesa evangelica riformata svizzera, fuori le mura della città in quanto luogo di sepoltura dedicato ai protestanti – per quanto anticipato dallo stesso Rossi sembra che Landor in patria venisse considerato autore di sonetti raffinati e potenti alla stregua addirittura di William Shakespeare. Autore anche di tragedie che prendevano esempio dallo stile di Vittorio Alfieri, a ribadire il forte interesse dello scrittore britannico verso l’illustre cultura italica sono state soprattutto opere in prosa come “The Pentameron”, basata su colloqui immaginari fra Petrarca e Boccaccio, e in particolar modo “Imaginary conversations”, ispirata dai “Dialoghi dei morti” di Luciano di Samosata in cui vi sono discussioni tra personaggi come Savonarola o Garibaldi. Che i Goad abbiano quindi deciso di tributare un personaggio che oggi per i profani è caduto nel dimenticatoio, rientra nell’oscura tradizione nostrana, creando un unico brano lungo oltre i cinquanta minuti e diviso in tredici tracce che corrispondono ad altrettanti movimenti della suite progressiva. La musica si va sempre più distaccando dalle soluzioni maggiormente dure, lasciando che la “pesantezza” traspaia essenzialmente dalle atmosfere romantico-decadenti, materializzate in quel cimitero che compare nelle foto di Cristiana Peyla, in cui sono ritratte le opere in marmo che il prof. Mariano Bianca ha inserito nel suo teatro esoterico vicino Firenze.
La prima e breve “Written on the First Leaf of my Album” a metà strada ricorda moltissimo i Genesis, tanto da sembrare un demo recuperato del periodo “Selling England by the pound”. La voce di Rossi – che si occupa anche di tastiere, basso e di alcune tracce di chitarra – continua a suonare arsa, priva di qualsiasi eco, svuotando volontariamente le canzoni di ogni profondità. Nonostante le note di basso siano ben udibili, non si coglie il senso di riempimento che questo strumento normalmente dona alla musica. Ciò fa sì che le atmosfere suonino davvero inquiete ed inquietanti, dando all’ascoltatore un forte senso di alienazione. Nonostante questo, “To One Grave” comincia a mettere in mostra la chitarra elettrica e i fiati, grazie all’altro polistrumentista Alessandro Bruno, che affianca il mastermind con chitarre, mandolino, sax, flauto, oboe e violino. Con “Bolero” e “Goodbye, Adieu” i territori musicali si spostano pian piano verso i Van der Graaf Generator (qualcosa anche dei Pink Floyd sperimentali, soprattutto nella risonanza della chitarra acustica), la cui ispirazione incomberà per il resto dell’album. Vi sono poi ben due batteristi, Paolo Carniani ed Enrico Ponte, che comunque conferiscono un andamento costante ai brani. L’uso della chitarra è sicuramente inusuale, specie su “Life’s Best” e sui quasi dodici minuti di “Where are Sighs”, la cui ritmica diventa complicata e si vanno fondendo strumenti vari, in particolar modo il flauto. A partire da “Decline of Life”, poi, la produzione curata da Freddy Delrio (Death SS) comincia a divenire più ricca, ridondante, dando man mano quel senso di pienezza quasi assente nella prima parte. E proprio Delrio si rende protagonista col suo pianoforte su “Defiance”, la cui ricchezza di elementi inseriti nella parte strumentale fa sì che diventi il pezzo più bello, ricordando un po’ i migliori Waterboys. La conclusione con le brevi “Brevities” e soprattutto “Evocation” dà un senso di regale e finalmente positiva pace spirituale.
Gli scrittori ameni sono sempre stati al centro dell’attenzione di Maurilio e compagni, basti pensare agli album dedicati a H.P. Lovecraft e ad E.A. Poe. Il secondo dischetto è un concerto tenuto a Firenze nel 1995, dedicato proprio a quest’ultimo artista. Anche l’incisione ufficiale del documento live era stata preannunciata dal leader, paventando la possibilità di dare alle stampe un doppio. Detto fatto. Con Rossi ci sono la cantante Diana Crepaz, il chitarrista Marcello Masi, il batterista Giancarlo “Bronco” Gaglioti ed il violinista Roberto Masini. Sei brani, la cui produzione non è certo perfetta ma che ricrea il calore live della riproposizione di quello che forse è il loro lavoro migliore. Il mix del live-sound ad opera di Richard Urzillo e la rimasterizzazione di Delrio hanno conferito un bell’alone attorno alla musica, quasi da vinile. Sempre belle le soluzioni di violino ed incisivi gli assoli di chitarra, con le due voci sfrontate e solari come in “To One in Paradise”. Si tratta alla fine di un bootleg reso ufficiale, che però si fa piacevolmente ascoltare, nonostante gli applausi del pubblico siano praticamente tagliati fuori.
Bravo il “vecchio” Maurilio e bravi i musicisti che di volta in volta gli si affiancano. Tante difficoltà, compromessi da superare, ma nonostante tutto sempre in pista. Bene così… e a presto!



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Michele Merenda

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