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GRYPHON Get out of my father’s car! autoprod. 2020 UK

Dopo i fasti rinverditi dall’eccellente album del ritorno (“ReInvention”, 2018), che arrivava ben 41 anni dal primo scioglimento e quasi dieci dopo la timida ripresa dell’attività live, molti di noi avevano sinceramente sperato che non si trattasse di un fuoco fatuo, avendo assistito a molte reunion effimere negli ultimi tempi; ebbene, ecco al fin giungere a stretto giro il nuovo graditissimo capitolo (il settimo in studio) per gli impareggiabili alfieri del folk-progressive con influenze medievali e rinascimentali.
A tre dei quattro membri fondatori, Graeme Taylor, Brian Gulland e Dave Oberlé si uniscono il virtuoso Andy Findon al clarinetto, sax e flauto, già apprezzato sul lavoro precedente, più due nuove reclute: Rob Levy al basso (che sostituisce Rory McFarlane) e Clare Taylor al violino e alle tastiere (al posto di Graham Preskett, nessuna parentela con Graeme) nonché voce femminile inedita nella storia della band. Tutti i nuovi membri contribuiscono alla causa con loro composizioni e il ventaglio di stili offerto dall’album, almeno secondo la presentazione stampa, non ha precedenti nella storia dell’eccentrica band. Di fatto, due sono le cose che risultano evidenti già ad un primo sommario ascolto: l’opera può considerarsi a buon diritto una perfetta prosecuzione di quanto proposto due anni orsono, con brani piuttosto brevi (mediamente 4 o 5 minuti, e la durata totale non arriva ai tre quarti d’ora), la conferma del ruolo di primo piano affidato al violino e di quello un po’ marginale (peccato!) della chitarra elettrica; inoltre, una certa preponderanza della vena umoristica, già annunciata dallo scherzoso titolo (elemento a dire il vero sempre presente nella produzione della band, in tal senso in buona compagnia con gli altrettanto guasconi Amazing Blondel), che ci fa supporre che i nostri siano diventati un po’ più buontemponi nell’età matura, allontanando così qualsiasi accusa di seriosità per la loro anacronistica presentazione. Tutto ciò fa sì che eventuali riferimenti agli album storici puntino soprattutto ai brani brevi di “Midnight mushrumps”, a “Rain dances” e al sempre troppo sottovalutato “Treason”, a mio avviso sintesi perfetta tra ricerca sonora e fruibilità. L’artwork, di nuovo ad opera del pittore John Hurford, rafforza la continuità con il disco precedente.
La title-track apre il lavoro in modo un po’ spiazzante con una chitarra quasi funky e il sax, ricordando piuttosto i frangenti più spensierati dei Caravan di metà anni ’70, ma presto si aggiunge il violino e gli altri fiati a rimescolare le acque e ben presto l’inimitabile marchio Gryphon emerge decisamente. La frase che da il titolo all’album, reiterata in coro, si riferisce ad un episodio risalente agli albori della band, un litigio tragicomico oggi ricordato con tenerezza dai protagonisti. Due sono i brani strumentali riadattati da Andy Findon da composizioni firmate da suo fratello Gary, scomparso nel 1969: “A bit of music by me” è un episodio delicato e pastorale, mentre “Suite for ‘68” passa con disinvoltura da un tempo di walzer a sezioni elegiache, con violino, organo, flauto, fagotto e crumorno a guidare le danze; entrambe si integrano perfettamente nel tessuto dell’album, a dimostrazione di quanto i nuovi innesti abbiano interiorizzato l’etica sonora del gruppo.
Stessa cosa si può affermare per Claire Taylor, la cui “Christina’s song” è un adattamento di una celebre lirica della poetessa romantica inglese Christina Rossetti (poesia già musicata dai White Willow di “Ignis fatuus”, ed è interessante confrontare i due risultati); ritroviamo la sua firma e la sua voce su “A stranger kiss”, altro brano romantico – stavolta di vaga ispirazione shakespeariana – guidato da chitarra acustica e violino (vero protagonista nella musica dei Gryphon della seconda fase).
Dietro la bizzarra assonanza di “Percy the defective perspective detective” si cela un brano basato sull’interazione tra flauti, violino e clavicembalo dal deciso sapore barocco, mentre “The brief history of a bassoon” è eccentrica quanto suggerito dal titolo, con Brian Gulland a narrare in prima persona con tono da cantastorie la precedente vita dello strumento nella forma di un albero; il contrasto è netto con la riflessiva “Forth Sahara”, ad opera del bassista Rob Levy, il cui tema è condotto dal violino, con languide note di flauto e fagotto a sottolinearne l’aura nostalgica.
“Krum dancing” è una delle tipiche mini-suite gryphoniane composte dalla giustapposizione di danze rinascimentali (almeno in stile, poiché si tratta di composizioni originali), degna erede di quella “Junipher suite” in nel lontano 1973 già si anticipava timidamente la complessità che sarebbe giunta con i due dischi successivi; finalmente possiamo apprezzare la chitarra graffiante di Graeme Taylor e le percussioni solenni di Dave Oberlé, in quello che si rivela essere uno dei brani più frizzanti e rappresentativi del lotto, caratteristica condivisa con “Normal wisdom from the swamp… (a sonic tonic)” in cui la linea di basso è un tributo a Chris Squire e il testo un tipico nonsense dei loro, a meno che non vogliamo prendere sul serio versi che parlano di “pterodattili nascosti sotto il letto”. Il finale è malinconico, “Parting shot” è basata su una melodia che Graeme scrisse al piano 35 anni orsono come sottofondo per presentare al pubblico i membri degli Home Service ai tempi della sua militanza nella band; nella sua versione definitiva è una sentita ode a sua moglie Sue, a cui rendono giustizia la voce di Oberlé e un rarissimo assolo di chitarra elettrica (quasi latimeriano) dell’autore.
Pur trattandosi di un lavoro che consiglierei ad occhi chiusi, se vogliamo essere pignoli, si tratta probabilmente di un piccolissimo passo indietro rispetto a “ReInvention”, a causa di una maggiore frammentarietà; resta da apprezzare la volontà della band di dare alle stampe un nuovo capitolo senza indugiare più del dovuto, scelta saggia per chi non è più esattamente nel fiore degli anni, soprattutto se il disco potrà degnarsi, come nel caso in questione, di essere riposto sullo scaffale accanto ai capolavori del passato senza sfigurare troppo.



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Mauro Ranchicchio

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