Home
 
HAL & RING Alchemy Musea / Poseidon 2006 JAP

La firma da studio legale a cui è attribuito questo album si riferisce in effetti alla fusione di due band giapponesi attive durante la seconda metà degli anni ’70: gli Hal, dalle cui fila provengono Naoya Takahashi e Haruhiko Tsuda (in seguito anche negli Shingetsu) e i Ring (dalla cui recente riformazione è scaturito l’album “The Empire of Necromancers”) guidati dal tastierista Takashi Kokubo. Essendo il disco formato da brani composti dai due gruppi 30 anni fa, accade che il principale compositore risulta essere Yoichi Kamata, leader degli Hal, oggi paradossalmente assente in questo nuovo progetto. Completa la lineup il bassista Yoshiyuki Sakurai proveniente dagli East Wind Pot ed il secondo tastierista Kayo Matsumoto già collaboratore del collega nel progetto “Kokubo Synthesizer Works”.
Siete ancora con me o vi siete persi nelle labirintiche strade di Tokyo? Ok, passiamo a descrivere il contenuto… hmmm, il brano di apertura “Sir Bordenhausen” sa molto di Emerson Lake & Palmer, abbiamo forse a che fare con qualcosa di simile a Gerard o Deja vu? Non proprio, dato che dalla seconda traccia in poi i ritmi rallentano e prende piede una tendenza all’improvvisazione che assieme agli arrangiamenti un po’ “sparsi” spostano il tutto in direzione di una fusion sinfonica: più o meno la strada intrapresa dai connazionali Kenso. Aggiungiamo un certo sapore di space rock e una vaga propensione (in verità tenuta a freno) a indurire le sonorità con poderose “schitarrate” e abbiamo qualcosa che può essere assimilato ad alcuni momenti degli Ozric Tentacles, privi però delle influenze etniche… orientali (strano il mondo, eh?) e di gran parte della fantasia di Ed Wynne e soci.
Non so, il disco è ben suonato, bilanciato e nessuno dei cinque possiede manie di protagonismo (a proposito, l’album è interamente strumentale), eppure trasuda un po’ di freddezza e manierismo. Non bastano alcuni passaggi eccentrici alla Gentle Giant per scaldarci il cuore… allora basta attendere il brano conclusivo, la mini-suite “In memory of Charnades the Pan” per svegliarci da un certo torpore (non voglio parlare di noia, perché non sarebbe generoso) e chiudere in bellezza un album altrimenti un po’ anonimo: qui si può trovare di tutto, dalla ripresa del tema emersoniano iniziale ai tipici, intelligenti equilibrismi del miglior Kerry Minnear, un organo dal sapore liturgico ed una chitarra tagliente quanto basta.
L’ascolto termina senza che io sia assalito dalla voglia di ripeterlo da capo, ma con la consapevolezza di avere tra le mani un lavoro interessante, almeno quanto i tanto osannati parti di Niacin, Planet X ed in generale tutta l’odierna scena statunitense a metà tra la fusion ed il prog-metal.

 

Mauro Ranchicchio

Italian
English