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HERESY Prufrock autoprod. 2016 USA

Gli Heresy si sono formati all’inizio degli anni ’80, hanno pubblicato due album, nel 1985 (cui contribuì niente meno che Steve Vai) e nel 1989 (quest’ultimo su doppio CD), per poi prendersi una breve pausa… fino al 2016, appunto. Il gruppo non si è mai effettivamente sciolto ed affida il proprio ritorno alla trasposizione in musica di un poema di T. S. Eliot, qui diviso in due suite principali (“The Love Song of J Alfred Prufrock, pts 1 & 2”) e, a sua volta, in 16 brevi titoli.
A dire il vero la musica degli Heresy è piuttosto brillante e didascalica, con toni enfatici e movenze che si barcamenano tra un pop sfavillante e sonorità prog sinfoniche, con qualche assonanza che ci fa venire in mente Jethro Tull, Alan Parsons Project, Electric Light Orchestra… e anche i Queen, talvolta. E’ innegabile che l’ascolto sia divertente e ci faccia trascorrere un bel quarto d’ora (beh… un po’ di più, ovviamente) con una musica sufficientemente ben suonata ed arrangiata, con musicisti oramai non certo più di primo pelo, con un bel cantato e discrete orchestrazioni. I membri della band sono quattro (il cognome di tre dei quali tradiscono origini italiane, peraltro) ma è presente un nutrito numero di ospiti che, con fiati, violino e cori, arricchiscono il suono di questo disco.
Pur divertente tuttavia, la musica proposta difetta spesso di spessore, non lasciando molto di più di un piacere superficiale che ci scorre addosso senza lasciare molte tracce ma anche, va detto, senza cenni di stanchezza o di insofferenza.
L’album in sé sarebbe abbastanza breve, appena 45 minuti, e non sarebbe una cattiva cosa. La band ha però deciso di aggiungere 7 bonus track (per un’altra mezz’oretta di musica) che altro non sono che altrettante canzoni, sulle 10 originariamente presenti, dell’album di esordio (“At the Door”) del 1985, finora mai ristampato. Beh, lo stile è più o meno omogeneo alle canzoni fin qui ascoltate, anche se, trattandosi in questo caso di canzoni indipendenti l’una dall’altra, lo stile è più eclettico e vario (e, in generale, più leggerino) ed abbiamo modo di ascoltare i due piccoli contributi di Steve Vai alla chitarra.
In definitiva si tratta di un dischetto simpatico, non certo imprescindibile o da top lista; divertente e d’intrattenimento, poco di più.



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Alberto Nucci

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