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HADEON Sunrise autoprod. 2018 ITA

Formatosi nel 2014, dopo un paio d’avvicendamenti il quintetto di Udine esordisce dapprima sul proprio bandcamp alla fine del 2017, per poi passare alla pubblicazione anche in CD durante i primi mesi dell’anno successivo. Si tratta di un prog-metal tosto e melodico allo stesso tempo, buona evoluzione di quanto già si faceva in Italia durante le seconda metà degli anni ’90, per fortuna con una (auto)produzione nettamente migliore – sia nelle scelte stilistiche e soprattutto nella qualità dei suoni –, con delle idee che non si sono certo cristallizzate in quel (glorioso o effimero?) periodo. Come già accaduto con altri connazionali, il debutto si dimostra subito impegnativo soprattutto nei contenuti di base: qui si tratta di scendere nei meandri dei turbamenti umani, con le canzoni viste come “malattie” esistenziali, e nonostante i brani potrebbero apparire all’ascoltatore musicalmente positivi, le tematiche divengono sempre più cupe, fino alla conclusiva title-track, che come da titolo riporta alla luce. Una luce rinnovata, il cui concetto va di pari passo al nome stesso del gruppo friulano; i nostri hanno voluto far riferimento all’Adeano – da Ade, il dio degli inferi –, dominato dal calore che stava ancora plasmando un mondo in assoluto divenire. La prima era geologica del pianeta, antecedente anche alle rocce più antiche, considerato comunque un periodo non ancora caratterizzato da un inizio ben preciso. Una situazione somigliante alla presa di coscienza di chi sta ricominciando tutto daccapo, sia materialmente che spiritualmente, scavando dolorosamente per trovare l’Essenza in quanto tale. Un concetto ribadito anche nella bella confezione apribile, in cui uno scrittore passa gradualmente dal buio della notte alla luce del giorno, passando per quell’aurora intermedia che dà titolo all’album. L’attacco di “Thoughts’ n’ Sparks” fa venire subito in mente gli inglesi Threshold, cioè coloro i quali hanno rappresentato e forse rappresentano ancora oggi la corrente alternativa sia ai Dream Theater che ai Fates Warning – i Queensryche, con due-tre album, sono stati un discorso in buona parte diverso. Per carità, i riferimenti di Petrucci e compagni non sono certo assenti, ma un po’ tutti concordano nel dire che si coglie maggiormente la presenza della band d’Albione, che già con “Wounded land” aveva tracciato le sue coordinate.
Altra caratteristica di questo lavoro è che le tracce non presentano una struttura classica, quindi non ci si può aspettare il classico schema strofa-ritornello-strofa. Ogni composizione è discretamente articolata, come dimostra l’assolo centrale nella stessa “Thoughts…”, di chiara impostazione fusion. Le due chitarre di Alessandro Floreani e Fabio Flumiani non si pestano mai i piedi e si producono in assoli convincenti, ben calati in un contesto introspettivo. Un qualcosa che può essere ascoltato in “Chaotic Picture”, dove proprio l’assolo spezza la dura tensione e fa passare a quella fase melodica che si era sentita nell’introduzione del pezzo, la quale sembrava poi sparire repentinamente per far posto ad uno stile a tratti simile a quello degli Evil Wings. Sarà sicuramente una seconda parte molto apprezza dagli amanti delle belle melodie, grazie soprattutto alla voce Federico Driutti. È infatti proprio lui – che suona anche le tastiere – a dare un tocco in più al sound, grazie ad una tonalità che potrebbe ricordare James LaBrie, senza però eccessivi acuti isterici. Quello di concludere i pezzi in maniera più melodica, come se si sfociasse in una specie di liberazione, sarà un elemento evidente anche in altri brani successivi, come dimostrano gli otto minuti e mezzo di “I, divided”; è uno degli episodi dove si sente maggiormente il “Teatro del Sogno” e che prosegue con un andamento “singhiozzato”, in cui la batteria di Lorenzo Blasutti deve fare gli straordinari, concludendo con Driutti che canta come se il vocalist canadese dei ‘Theater fosse stato improvvisamente illuminato. Tra i momenti migliori c’è “Never Thought”, le cui chitarre acustiche creano assieme alle percussioni un’atmosfera che nelle strofe diviene vagamente zeppeliniana, mentre il ritornello suona smaccatamente a stelle e strisce. “Lightline”, nelle sue parti più lineari, è caratterizzata da una consistente linea di basso ad opera di Gianluca Caroli, a cui si susseguono delle parti che si arrovellano su loro stesse, prima del consueto finale drammatico cantato da Driutti. “Hopeless Dance” sembra la più dura del lotto, anche se come al solito la successiva metà è per buona parte introspettiva, nonostante il finale rabbioso… Si conclude quindi con la giù citata title-track, che con i sui dieci minuti e mezzo mette in mostra tutto quello che gli Hadeon sanno fare. Una bella musicalità, in cui i singoli strumenti si esprimono molto bene, soprattutto il basso. C’è qualcosa dei Genesis, quelli meno stucchevoli, alternati a sonorità metalliche; è come una lunga storia, che cambia spesso e nel cantato sa essere ruffiana al punto giusto, senza strafare più di tanto. Quando si accelera le chitarre si concedono a velocissimi assoli neoclassici, per chiudere con grande teatralità che oscilla tra i Queen e proprio i Dream Theater (anche loro comunque debitori alla storica band).
Tirando le somme, questo esordio è più che positivo. Il prog-metal difficilmente potrà andare oltre quanto già sentito a livello di ispirazione, a meno che si metta a repentaglio il fattore dell’orecchiabilità. I nostri hanno ripreso i soliti stilemi, certo, ma li hanno messi insieme abbastanza bene e ne hanno fatto qualcosa di gradevole, che non stanca poi più di tanto. Una scelta coerente che per una volta non sa di forzatura e che farà la gioia degli amanti del genere trattato. Magari ascoltato più volte non darà le medesime sensazioni della prima volta, ma sembra comunque un buon inizio, anche se il fattore “italico” – a partire dalla lingua adottata per il cantato – è stato decisamente messo da parte.



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Michele Merenda

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