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HATS OFF GENTLEMEN IT’S ADEQUATE Nostalgia for infinity Glass Castle Recordings 2020 UK

Dopo quattro album ed una manciata di EP, l’ultimo dei quali anticipava i contenuti del nuovo lavoro, il progetto del polistrumentista inglese Malcolm Galloway, sempre circondato dai collaboratori che lo hanno accompagnato dall’esordio del 2012, giunge al quinto album in studio. Come già avvenne nei due album precedenti (il più recente dei quali, “Out of mind”, risale a due anni orsono), la band si configura come un trio, con Malcolm – principale autore di testi e musica – ad occuparsi di voce, chitarre, tastiere e programmazione (non c’è un batterista di ruolo), il suo alter-ego Mark Galland principalmente al basso e al Chapman stick e Kathryn Thomas al flauto.
Il gruppo si presenta alla stampa come “un progetto che rifugge le etichette di genere, combinando alt-rock, progressive ed elettronica, con elementi di minimalismo, funky, musica classica, acustica e metal”. In pratica questa definizione finisce per coprire la quasi totalità dei generi musicali, lasciando un po’ il tempo che trova; cerchiamo quindi di capire meglio di cosa si tratti, analizzando i brani (sono dodici, con un paio la cui durata si attesta attorno ai dieci minuti) contenuti in questi 70 minuti di musica obiettivamente eclettica.
I primi due brani sono ispirati al romanzo “Century rain” di Alastair Reynolds, e in seguito troveremo molti altri riferimenti alle opere di “fantascienza tecnologica” dello scrittore e astrofisico britannico; il brano omonimo apre il disco con una sequenza di synth e un cantato sotto le righe che suggerisce un senso di inquietudine, l’avvento del flauto fa salire di molto il gradimento e si finisce in territori vagamente in stile “new-prog”; atmosfere più serene per “Twin Earth”, con le tastiere che si concedono delle scorribande e ancora Kathryn che spesso detta la melodia col suo strumento, ma non bisogna pensare ad un contesto pastorale, la proposta degli HOGIA si pone su coordinate moderne e urbane, ispirata com’è dalla letteratura distopica e da maniacali dettagli scientifici, riportati anche nel booklet per la gioia degli interessati.
Un’altra serie di brani rimanda invece alle eroiche vicende della portaerei HMS Ark Royal durante la seconda guerra mondiale, in particolare l’ottimo strumentale “Ark”, affidato ad un pianoforte quasi da carillon e una chitarra elettrica in stile Camel o Pink Floyd, con le funeree timbriche delle tastiere a metà strada tra Richard Wright e certi Tangerine Dream. Il finale chiude il cerchio riprendendo il tema iniziale, la cui ciclicità può richiamare anche i primi lavori di Mike Oldfield. La “Redemption Ark suite” è composta di cinque brani marcati individualmente sulla tracklist e nel lettore, distinti anche musicalmente, essendo giustapposti senza troppo badare alle transizioni: il primo, “Glitterband” è un altro brano di impatto immediato e parte senza fronzoli con la voce di Malcolm semi-recitata; “Conjoiners” torna alle floydiane ritmiche cadenzate, le stentoree note di synth paiono uscite dal finale di “Shine on you crazy diamond” (ma non voglio calcare troppo la mano sulle similitudini, gli HOGIA non sono una di quelle band iper-derivative) e si fanno strada tra le serpentine del basso; la breve “Scorpio” vira in territori quasi-metal, con un infuocato riff di chitarra stranamente abbinato ad una base pianistica di stampo classicheggiante: potrebbe essere un omaggio ai duelli Petrucci/Rudess in certi brani dei Dream Theater; tutt’altra storia con “Inhibitors”, il cui flauto con effetto di riverbero pare rimbalzare su ribollente magma rumoristico, come se David Jackson fosse stato ingaggiato dai Floyd nella sezione centrale di “Echoes”; infine, “Nostalgia for infinity” parte come un brano ambient, per lasciare spazio al flauto, stavolta protagonista e suonato in modo più ortodosso (non a caso, mi sento di preferire i brani in cui Kathryn compare tra gli autori, l’assenza del suo strumento inficia la riuscita di alcuni brani e la parte centrale del disco, come vedremo, ne risente).
Tra i restanti brani, infatti, “Nanobotoma” è un più ordinario brano rock, la cui originalità risiede più nell’idea delle liriche (in breve, ipotetiche future tecnologie medico-robotiche che si rivolgono contro l’uomo che le ha progettate) che nella musica, appena ravvivata dal solo di una chitarra elettrica piuttosto ispirata. “Chasing neon” spiazza con il suo sequencer in apertura, più simile a certe escursioni techno degli Ozric Tentacles che a ciò che si era ascoltato sino ad ora e conferma l’eclettismo di fondo del trio inglese. “Voyager” è un altro dei brani che ho più apprezzato, pacato e melodico, con le tastiere protagoniste e finisce per ricapitolare tutto ciò di buono che si è ascoltato in precedenza. Non sono invece affatto convinto che sia stata una buona scelta collocare un brano marcatamente heavy come “Sixth extinction” in chiusura al disco, che si conclude così con un episodio piuttosto ordinario di rock alternativo.
Non ho avuto il piacere di ascoltare gli album precedenti degli HOGIA, ma ho la percezione che la band abbia raffinato la propria scrittura e la cura dei dettagli per questo nuovo lavoro, che pur essendo inquadrabile solo parzialmente in un contesto progressive tout-court (sempre che qualcosa del genere esista), contiene elementi a sufficienza per essere apprezzato da chi non disdegna un certo “crossover” di stilemi frequentemente riscontrabile nelle band di questo decennio, specialmente negli episodi strumentali. In definitiva, anche se non siamo sufficientemente entusiasti da toglierci il cappello, il livello di gradimento è più che adeguato.



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Mauro Ranchicchio

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