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ISLANDS Return to the sea Rough Trade 2006 USA

Nato dalle ceneri degli Unicorns, il duo canadese degli Islands - formato da Nick Diamonds, chitarra, tastiere e voce e J’aime Tambeur (sic!) batteria - parte da una solida base di pop-rock alternativo per poter dar sfogo alle proprie stralunate fantasie in una miriade di direzioni. A contribuire all’eclettismo dell’opera, le collaborazioni esterne (tra cui un paio di componenti dei tanto osannati connazionali Arcade Fire) che impreziosiscono gli arrangiamenti di timbriche inconsuete.
Ciò che ne risulta è una bizzarra miscela a volte imparentata con la psichedelia “floreale” dei Beatles e con le produzioni di Brian Wilson; una ricetta “progressiva” solo in quanto a intenti, che mai sfiora gli stilemi tipici del prog-rock propriamente detto (o della sua definizione comunemente accettata).
“Swan (life after death)” si dipana su dieci minuti semplicemente reiterando una melodia contagiosa in un crescendo a metà strada tra i Beatles di “I want you (she’s so heavy)” ed il rock cadenzato dei Doves, infarcito di chitarre e distorsioni tipicamente “indie”; ancora retaggi dei fab four in “Humans”, dove possiamo apprezzare echi dei fiati di Revolver: qui la band sprigiona sixties da tutti i pori ma lo fa in modo burlesco, senza mai prendersi troppo sul serio.
Una lap steel guitar ed un violino pongono “Volcanoes” in bilico tra l’intimismo di Elliott Smith e la ballata country-western, mentre “Rough gem” con i suoi archi e i sintetizzatori gioiosamente strombazzanti, porta alla mente il Paul Simon più spensierato e si rivela un esperimento felice.
Assai meno interessanti gli spensierati calypso “Don’t call me Whitney, Bobby” e “Jogging gorgeous summer” e totalmente trascurabile per le mie orecchie è l’hip-hop su base elettronica di “Where there's a will there's a whalebone”; molto meglio le gelide costruzioni post-rock della sussurrata “Ones” o il dialogo Rhodes/clarinetto che costituisce l’ossatura di “If”
Questo “Return to the sea” si dimostra insomma un album piuttosto eterogeneo (e ciò mi ha costretto ad analizzarlo brano per brano), che pur facendo leva su una scrittura palesemente debitrice di soluzioni consolidate nel (lontano) passato, riesce ad ottenere un suono organico e attuale. Non resterà certo negli annali, ma può essere apprezzato da chi non disdegna di curiosare fuori dal recinto del progressive, fosse solo per assicurarsi che anche lì in fin dei conti tutto si ricicla.

 

Mauro Ranchicchio

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