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I AND THOU Speak autoprod. 2012 USA

Questo album è riuscito ad attirare l’attenzione su di sé principalmente attraverso un dettaglio in fin dei conti abbastanza insignificante ai fini del risultato finale. Lo trovate infatti pubblicizzato come il debutto discografico del tastierista dei Renaissance, Jason Hart, e a suggellarlo ecco un’elegante copertina disegnata da Annie Haslam in persona. In realtà Jason fa parte soltanto dell’ultima incarnazione della band inglese, quella del 2009, che ad ora peraltro non ha portato a nessuna realizzazione in studio e, anche musicalmente, a parte un’idea platonica di grazia ed eleganza, troviamo riferimenti abbastanza vaghi. E’ bastato però pochissimo per andare oltre il richiamo pubblicitario offerto dall’accostamento con un nome più blasonato: la copertina a colori pastello ed il nome Renaissance mi hanno solo dato l’impulso iniziale a provare l’ascolto di una traccia in streaming e l’acquisto è stato la diretta conseguenza dell’ascolto. Nella pagina della band trovate solo l’elenco dei musicisti, l’immagine della copertina dell’album e un brano da ascoltare. Fine. Se poi volete capire più a fondo chi sia questo Jason Hart, a parte l’ultimo arrivato in casa Renaissance, avrete scarsa soddisfazione. Jason è armato essenzialmente della propria arte e con essa è riuscito a far breccia nel cuore dell’ascoltatore e questo in effetti può anche bastare. Sue sono le composizioni (quattro lunghe tracce più un bonus), la voce solista, il pianoforte e le tastiere e, a completare il mosaico di suoni, ecco John Galgano degli Izz al basso, Matt Johnson (conosciuto per aver suonato nell’album “Grace” di Jeff Buckley) alla batteria, Jack Petruzzelli (The Fab Faux, Patti Smith) alla chitarra elettrica e acustica, mandolino e banjo. Abbiamo poi altri ospiti al violino, ai cori e con chitarre addizionali, senza dimenticarci di Steve Hogarth che assume il ruolo di cantante solista nella traccia bonus di chiusura.
La musica è un puro distillato di sinfonicità e romanticismo che fa leva su suoni limpidi, ma dal retrogusto vintage, e su atmosfere celestiali e rilassate. I brani presentano ampie simmetrie che si sviluppano in maniera distesa e assolutamente rilassata. Così la melodia suonata in apertura, proprio nella title track, sarà il perno di numerose altre variazioni che ritroveremo diffusamente nell’arco dei dodici minuti, come tanti cerchi concentrici che si allontanano progressivamente da un punto centrale. La voce di Jason è delicata e romantica e si modula dolcemente lungo sentieri musicali che sembrano fatti di tanti fili di luce che filtrano attraverso il pallido candore del vapor acqueo. Il suono limpido del piano ed una base soffice di tastiere, con il Mellotron (o un suo surrogato) celestiale sono gli elementi essenziali, ma spesso troviamo delle farciture sinfoniche a dare spessore a questa base delicata. Pur giocando sulle stesse variazioni, la porzione centrale del brano spicca come se fosse una vetta che emerge da una cornice di nuvole. L’ispirazione di fondo ci riconduce inevitabilmente ai Genesis, bisogna dire però che le influenze sono qui diluite in uno stile estremamente soffice e rarefatto. I vari richiami ai grandi classici del prog sinfonico sono poi convogliati, specie nelle sequenze più dinamiche e complesse, in un insieme di stampo americano molto sofisticato, che invece potrebbe ricordare gli Izz nella loro forma migliore. Non stiamo insomma parlando di uno dei tanti rigurgiti del New Prog di stampo britannico ma di qualcosa di tutt’altro spessore, a mio avviso, senza nulla togliere al movimento appena citato.
La successiva “… and I Awaken” offre invece qualche riferimento più mirato verso gli Yes che viene comunque sempre sublimato in una versione romantica ed ariosa … e sembra quasi pleonastico chiamare in causa i Glass Hammer, anche se mi riferisco più che altro a quelli di “Shadowlands” o “Culture of Ascent”. La grazia e al tempo stesso la ricchezza degli arrangiamenti, come anche la scelta di inserire il banjo, mi fa pensare forse alla formula musicale dei Big Big Train anche se qui il romanticismo è molto più potente. “Hide and Seek” è un ulteriore concentrato di grazia con una lunga e classicheggiante intro disegnata su morbidi arrangiamenti di archi e piano. Con i suoi sedici minuti è il pezzo più lungo dell’album e la lunga durata non lo fiacca mai, pur nella sua languidezza che non conosce fretta. A chiudere un quadrato perfetto e regolare ecco gli ulteriori tredici minuti di “The Face Behind the Eyes” dove troviamo questa volta tastiere imponenti ma pur sempre celestiali: i ritmi non accelerano ed i modi non mutano ma la musica tuttavia scorre piacevolmente. Molto d’effetto in particolare è la lunga sequenza strumentale centrale, con i suoi slanci quasi Emersoniani, anche se manca tutta l’esuberanza del tastierista inglese in favore di soluzioni più misurate. La bonus track a dire il vero non aggiunge molto altro all’album, a parte l’impressione che la voce di Jason Hart sia molto più carezzevole ed incisiva rispetto a quella di Hogarth che non apprezzo particolarmente in questo brano. Come avrete intuito, dopo lo splendido lavoro dei Big Big Train, i cuori romantici hanno trovato un altro buon motivo per cui pulsare. Se siete fra questi la raffinatezza di questa musica sognante non vi lascerà affatto indifferenti.


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Jessica Attene

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