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ISOBAR Isobar autoprod. 2020 USA

Le isobare sono le linee che sulle carte meteorologiche congiungono i punti geografici che in un dato istante presentano la medesima pressione. Non è questa l’unica definizione di isobara ma ci ho pensato perché le linee curve che si trovano sulla copertina, anche se in qualche modo sembrano delineare il profilo di un volto, effettivamente mi ricordano quelle meteorologiche. Come questo concetto possa associarsi alla musica degli Isobar lo ignoro. Forse perché le tredici tracce che compongono questo esordio hanno una qualità piuttosto omogenea? Forse perché la musica procede senza sbalzi in modo fluido dall’inizio alla fine? Sono spiegazioni che non mi convincono molto ed ignoro cosa sia saltato in mente a Jim Anderson (basso), Malcolm Smith (chitarra) e Marc Spooner (tastiere) quando hanno scelto questo monicker.
Che fossero dei tipi stravaganti lo sapevamo già: tutti e tre erano membri dei Metaphor, band che conosciamo benissimo e che abbiamo apprezzato per la sua bizzarra ecletticità. Del gruppo madre i nostri musicisti conservano la fantasia e quel modo di fare tutto americano di convogliare in modo creativo influenze diverse in uno stile unico. A rinforzare l’organico sono stati reclutati alcuni ospiti illustri e cioè il batterista Mattias Olsson (fondatore degli Änglagård, se ci fosse bisogno di ricordarlo), i due trombettisti Evan Weiss e Lonnie Cory ed i sassofonisti Ben Bohorquez e Tony Abena.
L’apporto dei fiati non si estende a tutte le composizioni, anche se si tratta della maggioranza, ed in tracce come “Mais Daze”, piacevolmente movimentata, “79¢”, o “Eleves Are Go” contribuiscono a creare intriganti contaminazioni jazz fusion. In realtà gli elementi che entrano in gioco, anche nell’arco in una sola canzone, sono eterogenei e potrà capitare di incorrere in scenari da big band così come in interludi di atmosfera o in sequenze dagli incastri bizzarri. “AP Alchemy” è l’esemplificazione di questa formula: l’apertura è sinfonica con richiami alla musica antica e tenebrose coltri di Mellotron (o suo surrogato), da queste atmosfere si dipanano sequenze soft fusion con richiami agli Happy The Man. Le melodie si innestano lungo un binario ritmico abbastanza regolare che sul più bello è pronto a saltare per l’innestarsi di interludi di atmosfera e talvolta dai riflessi elettronici. L’apporto tastieristico è dominante in questa traccia dalle interessanti aritmie mentre altrove, come nella frizzante “Dinky Planet”, si gioca molto sui riff geometrici della chitarra, di precisione quasi giapponese anche se non mancano delizie di stampo Genesisiano, se proprio credevate di potervi annoiare.
Sempre parlando di Genesis, un brano come “Dinner Ain’t Ready” me li rievoca molto nei momenti più sinfonici anche se globalmente prevalgono atmosfere quasi spaziali in un ibrido davvero stuzzicante. Nella sua commistione stilistica la musica non assume mai connotati ostici e forzati ma la ricerca di un equilibrio stabile accomuna tutti questi brani isobarici.
Se avete apprezzato i Metaphor, così come l’album solista di Malcolm Smith, che potrebbe essere considerato come un precursore abbastanza affidabile di quest’opera, se amate i suoni tastieristici non troppo vintage (Mellotron a parte ovviamente), le contaminazioni e le incursioni fusion, se volete passare un’oretta in compagnia di buona musica, questo album ben fatto potrebbe fare al caso vostro.



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Jessica Attene

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METAPHOR Starfooted 2000 
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