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DUŠAN JEVTOVIĆ Am I walking wrong? Moonjune 2013 SRB

Il chitarrista di origini serbe nato a Barcellona di Spagna approda al mercato discografico internazionale, pubblicando il suo secondo album per la newyorkese Moonjune Records. Come detto più volte, l’etichetta statunitense rivolge il proprio target verso delle proposte musicali che siano alternative nel vero senso della parola, senza mai intendere il termine nella sua vuota e noiosa accezione che pare andare così di moda ormai da tanti, troppi anni. Si era già notato come i relativi responsabili discografici si stessero interessando anche a dei chitarristi capaci di proporre una musica per lo più strumentale, che comunque sfuggisse ai canoni meramente spettacolari in cui si tende ad inquadrare solitamente i cosiddetti guitar-heroes; testimonianza di ciò sono stati nel recente passato lavori di artisti assolutamente diversi tra loro come gli indonesiani Ligro o i brasiliani Dialeto (discorso a parte va fatto per il jazzista fusion Dewa Budjana, anch’egli dall’Indonesia, e gli israeliani/americani Marbin). È stato proprio durante una di queste “investigazioni” sul web che Dan Burke si è imbattuto nella strana musica di Dusan Jevtovic, capace di colpirlo a tal punto da vedere nel suo power-trio il simbolo dell’unità tra corpo, anima e spirito, una specie di Trinità che va a formare una vera e propria Unità cosmica, che a sua volta, nella sua riflessione, dà vita alla Dualità e quindi a tutti gli altri numeri che ne derivano.
Andando oltre alle speculazioni mistiche di parte, il chitarrista si avvale della collaborazione del bassista catalano Bernat Hernandez e del virtuoso batterista serbo Marko Djordjevic, che attualmente vive a New York ed è stato impegnato in numerose pubblicazioni, anche sulla stessa Moonjune. Quasi tutte le dieci composizioni sono state registrate in presa diretta, denotando uno stile assai difficile da inquadrare, se non nei King Crimson più duri e sperimentali. In effetti Jevtovic svisa in una maniera molto simile a quella del ben più celebre collega Robert Fripp, producendo nervose dissonanze e lasciando parlare in chiave solista più che altro le note del basso ed i complessi passaggi della batteria. Si tratta di un album difficile, ostico, da ascoltare paradossalmente a volume alto per poterlo realmente capire. E a proposito di nervosismo, in brani come “You can’t sing, you can’t dance”, la title-track, “Drummer’s dance”, ma anche nei cinquantadue secondi di “Tra-ta-ta-ta”, è palese avvertire qualcosa di simile a ciò che si poteva cogliere nel Crimsoniano “Live in USA” (ma lì le motivazioni erano chiaramente differenti…).
Ci sono passaggi in cui viene trasfigurato il blues ed adattato a schemi inusuali, come in “One on one” – e qui la tendenza mistica a lunghi tratti si sente davvero - o in “Bluesracho”, ma anche momenti che tendono alla meditazione come nelle apparentemente rilassate “In the last moment II” e “If you see me again”. C’è anche “Embracing semplicity”, il cui inizio sa tanto di Radiohead…
Insomma, se si cercava qualcosa che mirasse più alla composizione fuori dai normali parametri e meno al solismo, con questo album la si è trovata. Apprezzando gli schemi di cui si parlava, che in questo contesto vengono assai estremizzati, ci si farà coinvolgere da questo strano vento che un po’ brucia tipo un magma. E poi – liberi di prenderla come una bestemmia –, se si arriverà fino alla fine, provate a mettere su il succitato “Live in USA”, soprattutto la recente versione masterizzata ed aggiornata: saranno in molti (santoni del prog esclusi, ma quelli sono una specie protetta a parte) che avranno la tentazione di leggere i titoli dei brani… nella copertina dell’ultimo lavoro di Dusan Jevtovic!



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Michele Merenda

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