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KVAZAR A giant's lullaby Musea 2005 NOR

A 4 anni dal buon esordio discografico, la band norvegese ci sorprende con un album che si colloca in un universo nuovo e pių evoluto, rimanendo sempre in termini astronomici: un disco dalle mille facce, complesso e sempre nuovo ad ogni ascolto. Il terzetto (composto da due tastieristi, di cui uno, Andre Jensen Deaya, assolve anche il ruolo di cantante, e da un batterista) č completato da due membri addizionali (chitarrista e bassista) e da una costellazione di ospiti che si dilettano con gli strumenti pių disparati. Accanto a suoni oscuri e levigati, moderni nell'impatto, emerge l'amore per gli strumenti vintage: i Kvazar stessi tengono a precisare che quello che suonano č lo stesso Mellotron che utilizzavano i King Crimson negli anni Settanta. Non pensiate comunque ad un album che si sforza di voler apparire a tutti i costi "Progressive", sfruttando gli stilemi pių battuti del genere (come in parte era l'album d'esordio). Vengono toccati diversi stili musicali pių o meno vicini al Jazz-Blues, con ritmi a volte esotici, tracce di folk e aloni psichedelici. La prima traccia, "Flight of Shamash" ci sorprende con i suoi canti gregoriani frammisti a loop elettronici, suoni stellari e samplers. Con la seconda traccia dal forte sapore celtico, "Choir of Life", cambiamo nuovamente scenario e ci culliamo fra le seducenti e vellutate linee vocali della brava Trude Bergli, accompagnate da un mandolino pizzicato con grazia e un tappeto di tastiere vintage di sottofondo. Le canzoni dei Kvazar giocano proprio sulla ripetizione e sulla variazione dei temi melodici e nella creazione di particolari suggestioni ipnotiche. Con questo non voglio certo dire che ci troviamo di fronte ad un album monotono, anzi le variazioni sono molteplici all'interno di un singolo brano ed ogni brano č diverso dall'altro. Dopo un breve intermezzo senza titolo, rappresentato dalla terza traccia, dominato dalla chitarra acustica, troviamo una delicatissima "Dreams of Butterflies", dai suoni eterei e leggiadri come ali di farfalle, con tanto di sax. Il brano tradisce la passione per i King Crimson che invece era dominante sull'album di esordio e ci porta, con lo scorrere dei minuti, verso i rumori rassicuranti di una tavola imbandita, puntando l'accento su quel vago feeling da piano bar che la canzone evoca a pių riprese. Un altro breve intermezzo senza nome per poi lanciarsi verso "Spirit of Time", una classica ballad Floydiana alla "Shine on You Crazy Diamond" sospirata e notturna. "Desert Blues" sfoggia una sorta di canti arabeggianti su uno sfondo a tinte psichedeliche, con corvacci che gracchiano fra i vari campionamenti, un sax irrequieto ed una batteria accarezzata sui piatti, come in una specie di delirio alla Gong. "Sometimes" č molto soft-jazz, con tanto di fruste ed il solito languido sax. Lo spirito jazzy si fa sentire anche nella title-track che si apre e chiude con una citazione di "Summertime". Infine, a chiudere il cerchio, "Dark Horizons", una sorta di nenia dalle sfaccettature cosmiche, con delicati intarsi di flauto e cori sussurrati. Non so se i giganti si addormenterebbero mai con questo album, č invece certo che questo si colloca, come direbbe un nostro amico uzbeko, fra le migliori uscite dell'anno, senz'altro fra le pių creative in ambito Prog.

 

Jessica Attene

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KVAZAR Kvazar 2001 

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