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KONCHORDAT English ghosts autoprod. 2009 UK

Dopo aver letto recensioni entusiastiche in giro per la rete, ma soprattutto la frase “nuovo Canterbury sound per il XXI secolo” mi sono sentita in obbligo di affrontare la recensione di questo debut album, per riequilibrare un po’ le esagerazioni sparse ai quattro venti e riportare alla realtà gli appassionati del nostro genere musicale, che potrebbero essere stati fuorviati dai giudizi tanto generosi quanto esagerati che si trovano in giro. Bene, questo trio, che si avvale nientepopodimenoche dell’operato di Nick Magnus (Steve Hackett Band) per la masterizzazione del suo CD, è autore di un decisamente poco originale new prog romantico, con elementi tastieristici sgargianti ma assolutamente non invadenti, cantato maluccio e suonato in maniera appena discreta. Bene, la Terra di Albione ha un po’ dimenticato la sua gloriosa tradizione progressiva ma non è ridotta così male da dover mettere sul trono del prog questi sconosciuti. Ecco quindi che ho riequilibrato i giudizi sproporzionati e a questo punto posso spendere qualche parola di approfondimento in più. Fra i punti di riferimento che meglio possono descrivere il sound di questa band citerei senza dubbio i Pendragon, i Galahad e anche i Jadis. L’apertura è molto solare e ai primi arpeggi di chitarra con Moog sgargiante sullo sfondo, ci si aspetta davvero che inizi a cantare da un momento all’altro Nick Barrett, invece arriva lo sgraziato Lee Harding che ce lo fa addirittura rimpiangere… il che è tutto dire… La sua voce non è per niente dotata e canta per giunta come se stesse utilizzando la base del karaoke, in maniera poco integrata con le composizioni che, se fossero solamente strumentali, potrebbero rivendicare la propria dignità. Il sound è curato e rotondo, è vero, con suoni fluidi, limpidi e pieni ma le composizioni, dal canto loro, sono decisamente poco fantasiose e persino noiose in più frangenti. La porzione centrale dell’album è dominata da una suite di 19 minuti, la title track, suddivisa in tre movimenti: bisogna dire che grazie ad un songwriting più disteso, vengono qui raggiunti livelli di stirata sufficienza e forse questa traccia potrebbe essere un buon punto di partenza per eventuali sviluppi futuri. A parte il già citato Lee Harding che, oltre a cantare suona tastiere e batteria, la band è completata da Steve Cork (basso, tastiere e chitarra acustica) e da Stuart Martin (chitarra e voce), più un paio di chitarristi che intervengono come ospiti in un paio di pezzi. Forse trovare la dimensione della band, con un numero maggiore di elementi e ruoli diversificati, potrebbe essere un’ottima strategia per migliorare e raggiungere una ricchezza maggiore a livello compositivo e degli arrangiamenti (davvero essenziali in questo disco) ed anche una dinamica maggiore. Che dire? Il progressive rock non è questo e l’Inghilterra ha ben altro in serbo per noi, anche in tempi di vacche magre come quelli odierni. C’è di peggio ma si può comunque passare oltre senza rimpianti.


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Jessica Attene

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