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KENSO Uchinaru koe ni kaiki seyo King Records 2014 JAP

Anni fa, quando iniziai ad ascoltare musica in maniera definibile come seria, non avrei mai pensato che uno dei miei gruppi preferiti sarebbe stato quello di un dentista giapponese. Yoshihiza Shmizu ha guidato i Kenso attraverso più di 35 anni di storia, con costanza e perseveranza che hanno permesso di superare più volte lunghi anni di inattività, senza perdite di ispirazione e mantenendo sempre una qualità generale almeno buona. Tutto questo affrontando cambi di formazione realizzati circondandosi di musicisti professionisti estremamente dotati, ma senza essere un professionista egli stesso.
In realtà i componenti della band sono per quattro quinti gli stessi dal 1991, anno di "Yume no oka", e sono stabili dal 2002, quando con " Fabulis mirabilibus de bombycosi scriptis" è iniziata una splendida trilogia comprendente anche "Utsuroi yuku mono" e, a distanza di otto anni, il presente lavoro. "Uchinaru koe ni kaiki seyo" riprende lo stile senza tempo né regole che i Kenso hanno saputo creare e rifinire nel corso della propria esistenza, fatto di una superba commistione tra jazz, fusion e progressive, raramente abbandonato e sempre aggiornato nei suoni e nella tecnologia. Si potrebbe quindi pensare alla mancanza di novità, e a voler essere pignoli è esattamente così, se non fosse che il marchio distintivo del gruppo giapponese sottintende la capacità di non causare mai la sensazione di deja vu. Non ha quindi molto senso fare delle critiche a questo proposito, se non per il desiderio di scrivere una recensione che cerchi di essere il più possibile completa.
Se proprio vogliamo cogliere delle differenze col passato, è possibile notare in alcuni brani un leggero spostamento dell'equilibrio verso il lato prog della musica, con riferimenti evidenti alla passione mai nascosta di Yoshihiza Shimizu verso la PFM del periodo "L'isola di niente". Questo appare evidente in "Shinjuku kosei nenkin ni sora", costruita sugli incastri delle melodie create tra tastiere e chitarre, con una perfezione esasperata ma all'apparenza naturale, o nella lunga e mozzafiato "Voice of Shankara", che in alcuni momenti sembra un omaggio a "La luna nuova" e a "Generale".
"Kou ten bo setsu" ha una connotazione più fusion nella sua malinconica delicatezza, mentre Wakaki hi no watashi he" rappresenta i Kenso nella sua completezza, come un brano manifesto perfetto per descriverne lo stile. "Shuni majiraweba RED" gioca con le atmosfere create dalle melodie, ora jazzate, ora più convenzionali, ora tendenti ad un rock appena più duro nel crescendo finale; "Noukou minzoku ni tsugu!" parte proprio da un rock in apparenza semplice per stravolgersi subito dopo in un'alternanza di sezioni caratterizzate dagli unisono e dalle armonizzazioni degli strumenti. "Kokoro ha kako he mukau" mostra atmosfere più sperimentali nella sua breve durata, tutta giocata sugli effetti applicati alla chitarra elettrica, ma è la conclusiva "A song of hope" a sorprendere, rinunciando in parte al consueto stile e presentando una splendida voce femminile che canta (in inglese) in un susseguirsi di momenti acustici ed elettrici, melodici, duri ed epici, tra hard rock, funk e divagazioni operistiche. Il tutto è miscelato alla perfezione con un risultato che rende giustizia ad un idea di musica progressiva fatta di ricerca e idee, mai uguale a se stessa o di maniera.
Non c'è molto altro da dire, si può solo parlare della ricchezza degli arrangiamenti, ideati in modo da evitare quel fastidioso senso di sovrabbondanza presente in parecchie produzioni progressive odierne, o della vaga presenza di melodie ricordanti il folklore giapponese, oppure si potrebbe evidenziare la cura con cui è stato realizzato l'artwork e la validità della produzione, la cui resa sonora, a patto di possedere un sistema audio almeno decente, permette di apprezzare ad ogni ascolto nuovi passaggi e di cogliere con chiarezza le parti di ciascuno strumento nota per nota. A voler cercare a tutti i costi dei difetti, si potrebbe criticare la scarsa propensione all'internazionalizzazione dei lavori prodotti da certe band giapponesi, le quali sembrano interessate esclusivamente al mercato interno. I Kenso non fanno eccezione, indicando i titoli dei brani in kanji (ideogrammi) e, all'interno del libretto e scritti in piccolo, in rōmaji (cioè con l'alfabeto latino). La difficoltosa interpretazione restituisce così rassicuranti considerazioni sui ricordi di gioventù, la neve di pomeriggio, le cattive compagnie, e criptiche considerazioni sul cielo sopra i pensionati e altre riguardanti la classe lavoratrice. Tutta carne al fuoco che potrebbe stimolare ulteriormente la curiosità se non fosse che non è assolutamente necessario, dato che la musica basta e avanza. Un disappunto riguarda il fatto che l'album è disponibile solo d'importazione ad un costo mediamente elevato, a meno di auspicabili future ristampe europee da etichette come Musea. Il consiglio è di non aspettare poiché lo sforzo economico e quello intellettuale saranno completamente ripagati dall'ascolto.



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Nicola Sulas

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