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KSHETTRA Five mothers autoprod. 2017 RUS

Il bassista Boris Ghas ed il batterista Viktor Tikhonov formano nel 2007 i Kshettra, che in sanscrito vuol dire “Terra sacra”. Una ricerca psichedelica dell’Essenza, i cui primi passi col sassofonista Boris Peplin possono essere ascoltati in “Kicks sessions”, demo del 2008 presente sul loro bandcamp. Nel 2010, l’asse ritmico moscovita registra l’ingresso del chitarrista Nikita Gabdullin e diventa (almeno in apparenza) un classico trio. Firmano per la R.A.I.G. Records (la medesima etichetta dei Vespero) e durante il 2013 debuttano con “i”, esordio in cui stridono space-rock, durezze rumoristiche imparentate col metal, psichedelia un po’ dal sapore mediorientale e un po’ in stile Mandragora, assieme a sprazzi di jazz-rock. Poteva essere l’inizio di qualcosa d’importante, invece era già la fine di un progetto che ancora non aveva preso del tutto forma. Gabdullin infatti va via e la formazione ritorna il duo delle origini; nel 2015 viene pubblicato l’EP “Yar”, con tre brani in cui vi era ancora il chitarrista in formazione, ma il processo di ritorno all’essenzialità era già stato abbondantemente avviato. Non è quindi facile descrivere quanto ricreato dal gruppo russo, che torna ad appoggiarsi al sax in particolare e ai fiati in generale come strumenti narranti. L’ospite Ramille Mukilov è infatti presente su tutti i brani, immedesimandosi in una vena meditativa ancora più ermetica rispetto al passato. Le “cinque madri” del titolo sono probabilmente le cinque figure divine e “mostriformi” presenti tra copertina, confezione e CD, create da Mila Kiselva, artista con cui i Kshettra hanno stretto sodalizio ai tempi dell’esordio discografico ufficiale. Si è sicuramente mostrata la necessità di apportare nuovi elementi, come i sintetizzatori ed i samplers, suonati per la maggior parte delle volte da Tikhonov, ma che rimangono sempre sullo sfondo (vedi l’iniziale “Conception”) per non turbare un lavoro di insieme che spesso si rivela ripetitivo come un mantra dal vago sapore blasfemo. Lo si evince già in “Garura Lila”, sorta di danza irriverente davanti a un fuoco che scalda chissà quale zona delle steppe russe, rimasta ancorata a tradizioni precedenti alla venuta dei cosacchi. “Cikada” ne è la prosecuzione, divenendo più angosciante e irriverente, affidata ad un certo punto al basso martellante di Ghas, spesso inquietato dai fiati di Mukilov. Un gruppo che potrebbe venire in mente è quello degli italiani Tom Moto del secondo “Allob allen” (2014), avvolti anch’essi in un’atmosfera oscura ed oppressiva, ripercorrendo i sentieri spogli di quello che loro avevano ribattezzato post-prog.
La peculiarità della Russia come luogo che sembra costituire l’anello di congiungimento tra culture viene confermato da “Godzindra”, ancora una volta lasciata alle lunghe divagazioni di basso e agli interventi un po’ subdoli dei fiati, in questa distesa notturna dove aleggia la tensione e che alla fine porta chiaramente in Asia. “Walk Under The Moon” è – per l’appunto – una camminata sotto la luna, assolutamente allucinata e sperimentale, che costituisce una sorta di intermezzo, comunque interessante. Su “Umbra”, invece, torna protagonista il basso, che scandisce inizialmente un andamento allucinato e lento, tra strani sintetizzatori e trombe circensi, forse anche con un particolare carico di rabbia interiore, prima di cominciare a sobbalzare non appena il drumming si mette in moto e lascia entrare il lamento rancoroso del sax. I dodici minuti di “Mechanova” potrebbero rappresentare il lato buio dei già citati Vespero, senza campionamenti in stile Ozric Tentacles ma con un andamento da crossover che ha comunque dei rimandi “cosmico-allucinogeni”, anche grazie agli interventi in secondo piano di Nikolai Samarin al sitar, in cui si viene condotti verso qualche strano deserto sperduto. “Crossing”, invece, chiude l’album tra rumori vari.
Se fare prog vuol dire “progredire” ed andare oltre gli schemi - facendo identificare comunque l’ascoltatore con un modo di sentire -, indipendentemente dalle acrobazie tecniche, allora questa è progressive music. Una forma di espressione che può venir fuori anche nel minimalismo, da ascoltare con una certa attenzione per non rimanerne fuorviati.



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Michele Merenda

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