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KOTEBEL Cosmology Musea Records 2017 SPA

Non è facile neanche per un grande gruppo tornare all'attenzione del proprio pubblico con un lavoro nuovo di zecca quando si è consapevoli di aver realizzato un album perfetto sotto ogni profilo. I Kotebel lo fanno dopo cinque anni tentando di dare un seguito al loro superbo “Concerto for Piano and Electric Ensemble”. Ero davvero curiosa di sapere se il grande talento pianistico di Adriana Plaza emergesse ancora in questa settima fatica discografica ed ero terribilmente impaziente di capire quale sarebbe stata la nuova mossa del gruppo madrileno-venezuelano.
La prima grande sorpresa la registriamo col ritorno graditissimo di Omar Acosta al flauto, ufficialmente soltanto in qualità di ospite anche se di fatto appare più come un membro aggiuntivo a tutti gli effetti visto l'uso estensivo del suo strumento in questo nuovo album. La mancanza del flauto si era fatta pesante in un album come “Ouroboros” (2009), terribilmente complesso e stratificato, ma a mio avviso senz’anima ed il suo ritorno in questo nuovo contesto si rivela una carta vincente per il suo modo di donare colorazioni emotive e paesaggistiche a spartiti accidentati e concatenazioni strumentali spesso taglienti e robuste. La lezione di “Concerto for Piano and Electric Ensemble” è stata pienamente assimilata e viene ora incorporata in una nuova veste musicale che a mio avviso risente molto anche delle esperienze degli album precedenti, il già citato “Ouroboros” su tutti. Vi è ancora una forte connotazione classica e cameristica che si estrinseca fondamentalmente attraverso il grande lavoro pianistico di Adriana Plaza con un aiuto consistente fornito dal preziosissimo flauto. Ancora una volta sono centrali le interazioni della pianista con le potenti tastiere del padre, Carlos Plaza Vegas, che rimane il compositore principale dell'opera. Ma il sound appare oltremodo stratificato e talvolta irrobustito a dovere dalla chitarra elettrica di César Garcia Forero con le sue inflessioni hard fusion, come è particolarmente evidente in “Mishima's Dream”, pezzo che porta proprio la firma del chitarrista.
L'incipit, “Post Ignem”, è subito degno di nota. Si tratta di una specie di summa di quanto andremo successivamente ad assaporare: attraversando vari paesaggi sonori, stili ed umori ci porta lontano senza farci accorgere delle distanze percorse. Parte con slancio, con le tastiere imponenti, e ci irretisce con la dinamica percussività dalle sue cadenze latine ove si fa particolarmente evidente il grande lavoro del batterista Carlos Franco Vivas e del bassista Jaime Pascual Summers. I momenti più dilatati sono intrisi di poesia, dominati da melodie oniriche altamente suggestive e quelli più tesi arrivano ad essere fitti e tortuosi, rapidi e terribilmente precisi. Si tratta di otto minuti ben assortiti che ci separano dal cuore autentico di questo album, rappresentato da una suite in 4 movimenti, “Cosmology suite”, che, come il titolo stesso ci indica, si ispira a 4 diverse teorie sulla cosmologia.
Le teorie sul cosmo condizionano fortemente i contenuti musicali. “Geocentric Universe” ricorda chiaramente l'universo nella sua visione tolemaica ed il tessuto musicale in questo è un arazzo di colori variegati e ben definiti, col flauto dominante che si dilegua veloce fra le gelide note del pianoforte. Gli incastri ritmici sono precisi, con contaminazioni fusion dai riflessi latini ed ammalianti aperture classiche in ripetute oscillazioni che ci portano da Santana ai King Crimson agli After Crying. “Mechanical Universe” si apre con suoni ambientali industriali a evocare qualcosa di asettico e spersonalizzato. In questa visione cosmologica l'universo è sostenuto dalle perfette leggi della fisica e la musica appare a sua volta spietata, si sposta su piani rigidi che si intersecano in modo complesso fra fusion e RIO. “Entangled Universe” ci ricorda invece che tutto è reciprocamente interconnesso e l'apertura è in questo caso affidata al flauto prezioso che dipinge un motivo dolce e misterioso. Questo incipit semplice ed evocativo non lascia forse presagire l'evoluzione così intricata di un brano dalle chiare inflessioni jazz e dal carattere molto libero, non privo però di aperture squisitamente sinfoniche e stimolanti viraggi stilistici. “Oneness” ci suggerisce infine che, anziché entità distinte collegate le une alle altre, siamo tutti in realtà un'unica cosa. Anche qui nonostante un inizio rarefatto e delicato la musica cresce gradualmente in complessità offrendoci intarsi articolati ed imprevedibili, stratificazioni nervose, fughe emozionanti e duelli fra i vari strumenti, con piano, sintetizzatori e chitarra vorticosamente avvitati fra loro.
Alla fine della suite la percezione è che il gruppo abbia dato davvero tutto quel che aveva da offrirci e non sembra quasi esserci spazio per altro. In effetti abbiamo fin qui viaggiato su livelli altissimi e siamo rimasti costantemente sotto pressione, stimolati da soluzioni musicali assai dense e in continuo divenire. Una “Mishima's Dream” così chitarro-centrica stacca forse un po', nonostante la sua elettricità, e fa un po' da spartiacque col resto dell'album che si completa con una più lineare e rarefatta “A Bao A Qu”, che fa riferimento a una creatura leggendaria immaginata dallo scrittore argentino Jorge Luis Borges, con la già nota “Dante's Paradise Canto XXVIII”, già edita nel progetto Colossus dedicato al paradiso dantesco, e con la conclusiva “Paradise Lost”, una breve traccia dominata dal pianoforte e composta da Adriana Plaza. In effetti la sensazione che l'album si regga bene e in modo autonomo sulla suite centrale con un maestoso preludio ben rappresentato dalla superba traccia di apertura è forte e concreta. Anche tagliando le comunque belle tracce che seguono rimarremmo ugualmente soddisfatti dalla perfezione e dalla bellezza di una produzione musicale personale e singolare, interpretata con slancio e perizia tecnica indiscutibile e che si colloca fra le manifestazioni più alte che il Progressive Rock degli anni correnti sia in grado di offrirci.



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Jessica Attene

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