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LITTLE ATLAS Wanderlust ProgRock Records 2005 USA

Terzo album per questa band di Miami capitanata dal cantante e multistrumentista Steve Katsikas (tastiere, chitarra ritmica e sax), reduce dal buon riscontro ottenuto al ROSFest 2004 e dall’incoraggiante accoglienza ricevuta dal precedente “Surface Serene”. Il prog dei Little Atlas rifugge ogni tipo di concettualità e si focalizza nella creazione di canzoni a metà strada tra il new-prog propriamente detto e la scuola statunitense degli anni ‘90 capeggiata da Spock’s Beard, Discipline ed Echolyn: una scelta azzeccata, a mio parere, perché i risultati sono esemplari, sia pure senza mai raggiungere i vertici creativi o la complessità delle band menzionate. La sezione ritmica dei Little Atlas è composta da due musicisti di nazionalità venezuelana, così come l’ospite Claudia Sarmiento, ma le influenze caraibiche si riducono ad un insolito assolo di cuatro (una piccola chitarra a quattro corde) di quest’ultima.
Siamo di fronte a sette brani strutturati in forma canzone senza però seguire pedissequamente schemi stereotipati da hit-single, i cui punti di forza risiedono nelle melodie vocali (la voce di Katsikas è potente e personale, spesso in falsetto sulle note alte) e nella scelta dei suoni: una chitarra elettrica (Roy Strattman) spesso graffiante e tastiere dai suoni vintage ma palesemente campionati. Le sezioni strumentali sono apprezzabili ma lasciano il noto sapore del “già sentito” all’ascoltatore smaliziato, applicando spesso soluzioni eleganti ma non certo innovative.
Ci troviamo così ad apprezzare momenti sinfonici e cori polifonici come in “Weariness Rides”, ritornelli accattivanti come in “The Ballad of Eddie Wanderlust” e “Higher” con una batteria spesso debitrice del Portnoy di “Images and Words” o la power-ballad “Home” (forse l’episodio migliore dell’album) con gli obbligatori samples di flauto alla “Strawberry Fields Forever” e l’inedito duello tra una ruvida chitarra ritmica ed il cuatro venezuelano. Menzione particolare per il brano di chiusura “Mirror of Life” che si distacca un po’ dagli schemi descritti grazie anche al piano e al violino dell’ospite Bill Ayasse. Ad accentuare questo gioco di rimandi, il brano di durata più elevata, “The Prisoner” contiene nei suoi undici minuti così tante citazioni da renderlo quasi un compendio del progressive sinfonico dell’ultimo decennio, ispirando paragoni con i primi Spock’s Beard o con gli Iluvatar.
Non potendo confrontare l’album con le loro opere precedenti, mi limito a segnalarlo a chi predilige una scrittura non troppo impegnativa, suoni moderni e una produzione inappuntabile: da questo punto di vista è un disco quasi perfetto. Se invece prog è per voi sinonimo di ricerca, audacia e originalità… allora rivolgetevi altrove!

 

Mauro Ranchicchio

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LITTLE ATLAS Surface serene 2003 

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